"Call me Ishmael"
Un incipit entrato nella storia della letteratura. Una dichiarazione che apre un universo al lettore, che tra la bianca spuma delle onde, si deve far largo da solo nell'aridità del mondo. Ismaele non a caso, il primogenito di Abramo, cacciato e costretto a sopravvivere nel deserto fra mille avversità, non è un semplice personaggio ma la personificazione del vagabondo, dell'esule.
Leggere questo capolavoro di Melville nella traduzione di Cesare Pavese è un'esperienza ricca di sfaccettature. Pavese qui non è semplicemente traduttore ma sfodera la sua penna bagnandola nell'oceano di Melville. Sale a sua volta sulla barca alla ricerca del grande cetaceo bianco e ne coglie il succo mistico, simbolico facendolo suo.
Meraviglia e orrore si rincorrono tra le pagine, come il mare che non sta fermo nemmeno di notte, e il libro diventa l'esaltazione di un'avventura che, dalla ricerca della balena (whale), è traslata alla ricerca del noumeno, del tutto e dell'assoluto (whole).
"Simbolo piu' autorevole e solare della divinita' cristiana", il bianco e' infatti anche "la causa intensificante nelle cose che piu' atterriscono l' uomo": è l' immane vuoto che rivela "l' ateismo di tutti i colori" e degrada la luce a "mistico cosmetico". Nel centro della grandiosa epopea biblica, Melville ha nascosto i terrori di una possibile miscredenza; le devastanti erosioni della piu' nichilistica disperazione. Modeo Sando Corriere della Sera
L'edizione che vi proponiamo è pubblicata da Adelphi (14 euro) ed è impreziosita dal meraviglioso disegno di Roberto Abbiati del 2014 dal titolo Capodoglio. Non rimpiangiamo quindi la celebre edizione illustrata di Random House con le tavole di Rockwell Kent che per Moby Dick ebbe una vera e propria fissazione.
E se le 600 pagine di Melville vi sembrano estenuanti una soluzione c'è e la troviamo sempre in casa Adelphi: Un tentativo di balena di Matteo Codignola con le illustazioni di Roberto Abbiati. In attesa di farne una recensione ad hoc, vi proponiamo la scheda del libro e la copertina:
Nella fantascienza arcaica succedeva spesso che uno scienziato mosso dalle peggiori intenzioni escogitasse un raggio, o qualche altra diavoleria, in grado di ridurre uomini e cose a fattezze minuscole. Forse alcune di quelle formule sono finite in mano a Roberto Abbiati, e forse Abbiati - scenografo, e regista di se stesso - ha deciso di sperimentarle su uno degli esseri più smisurati che abbiano mai posseduto l'immaginazione occidentale: Moby Dick. Di fatto, ha costruito una bizzarra macchina teatrale - una scatola di quattro metri per due, che contiene quindici spettatori - usando la quale il suo Ismaele racconta di Ahab, della Balena, e di quasi tutto il resto. Ma lo fa in quindici minuti. A colpire, qui, non è solo il tentativo di raccontare una vicenda enorme nel minore spazio e nel più breve tempo possibili - anche perché questa sembra essere una fantasia ricorrente, che ha sedotto autori come Stephen King e John Huston, Orson Welles e Joseph Cornell. A stupire è piuttosto il sortilegio di cui, percorrendo questo curioso libro, finiamo per cadere vittime. Dopo essere entrati nello spettacolo descritto dal racconto di Codignola e dai disegni di Abbiati, infatti, ci ritroviamo a esplorare un mondo in miniatura, ma completo in ogni sua parte: e scopriamo con una certa meraviglia di desiderare tutto, tranne l'antidoto capace di riportarci alle dimensioni usuali.
Se avete voglia di tuffarvi in questo immenso mare di simboli: