Sandro Pergameno presenta Iain Banks e il suo Ciclo della Cultura

Le parole dell'autore che concludono il mega volumone Draghi Urania in libreria coi primi tre romanzi del ciclo



Pagine di storia della fantascienza che permettono di scoprire uno dei più grandi autori sci-fi contemporanei..


.. O di aggiungere dettagli a chi ha già fatto la sua conoscenza


- IAIN M. BANKS LA RINASCITA DELLA “SPACE OPERA” di Sandro Pergameno -


La vita e la filosofia


Il 9 giugno 2013, dopo una lunga e dolorosa malattia, si spegneva a soli cinquantanove anni, a Kirkcaldy, nella sua amatissima Scozia, Iain Banks, uno dei più grandi autori della fantascienza moderna. Il 3 aprile di quell’anno, con molta serenità e forza d’animo, lo stesso Banks aveva annunciato sul suo sito web di avere un tumore alla colecisti allo stadio terminale, e che da lì in poi non avrebbe più fatto apparizioni pubbliche. Secondo questa dichiarazione, che lasciò nello sgomento i numerosi fan dell’autore scozzese, il tumore si era ormai esteso al fegato, al pancreas e ai linfonodi, ed era quindi non operabile e incurabile. «È estremamente improbabile che io possa vivere ancora un anno, e quindi il mio prossimo romanzo, The Quarry, sarà anche il mio ultimo» disse Banks. Con il tipico humour nero che lo contraddistingueva, aggiungeva di aver proposto alla sua compagna, la scrittrice Adele Hartley, di diventare ufficialmente la sua “vedova”. I due infatti avrebbero dovuto sposarsi a breve. Banks dava anche credito ai suoi “eroici editori” di aver anticipato la data di pubblicazione di The Quarry, in modo che lui avesse la possibilità di vedere il libro al momento della sua comparsa sugli scaffali delle librerie.

Iain Banks era nato a Dunfermline, non lontano da Edimburgo, il 16 febbraio 1954. In realtà avrebbe dovuto chiamarsi Iain Menzies Banks (Menzies era un antico nome di famiglia), ma suo padre, ufficiale della marina britannica, al momento di registrarlo all’anagrafe si dimenticò del secondo nome. La M è rimasta comunque un segno distintivo con cui l’autore ha firmato (appunto come Iain M. Banks) tutte le sue opere fantascientifiche, mentre ha continuato a usare il vero nome, senza la M, per le opere più generaliste (impossibile definirle “mainstream”, data comunque l’elevata originalità e distanza dalla narrativa tradizionale). Figlio unico, Banks visse a North Queensferry fino all’età di nove anni, vicino al porto e agli uffici navali dove era di stanza il padre. Come spesso accade, fu un libro di fantascienza per ragazzi, Kemlo and the Zones of Silence (una serie assai popolare nei paesi anglosassoni), ad avvicinarlo al genere. Dopo aver frequentato il liceo alla Greenock High School, Banks studiò letteratura inglese, filosofia e psicologia all’Università di Stirling dal 1972 al 1975.

Dopo la laurea Banks svolse una serie di lavori che gli permettevano di scrivere la sera, in modo da poter sviluppare la sua passione per la narrativa. Queste attività gli lasciarono anche molto tempo libero per viaggiare attraverso l’Europa e il Nord America. Fu anche analista per l’IBM e tecnico per la British Steel Corporation.

Per quanto si considerasse soprattutto uno scrittore di sf, i difficili inizi lo spinsero a comporre e pubblicare anche opere di altro genere. Nacque così The Wasp Factory, che fu pubblicato nel 1984, quando l’autore aveva già trent’anni. Dopo il successo del romanzo, Banks si dedicò a tempo pieno all’attività letteraria.

All’epoca della sua morte, Banks aveva pubblicato ventisei romanzi. Il ventisettesimo, The Quarry, alla fine uscì postumo, come anche una raccolta di poesie, pubblicata nel 2015. In un’intervista del gennaio 2013 menzionò anche la trama e l’idea per un nuovo romanzo della serie della Cultura, purtroppo mai realizzato.

È triste ricordare che Banks era stato prescelto come uno degli ospiti d’onore della Convention Mondiale della Fantascienza del 2014, che si sarebbe tenuta a Londra (Loncon 3), quando ormai lui non era più tra noi.

Data l’influenza e l’importanza che ha la posizione della Cultura nell’universo di Banks, sarà utile ricordare anche la posizione politica dell’autore. Definito spesso come un “centrista di sinistra”, in realtà Banks era un “socialista” convinto. Si iscrisse infatti al Partito socialista scozzese e fu un forte sostenitore del movimento indipendentista scozzese. Si impegnò anche contro le politiche interventiste di Blair in Iraq, e contro tutti gli interventi armati sia dell’Inghilterra sia delle altre nazioni occidentali e di Israele nel Medio Oriente.


Gli anni Novanta e la rinascita dell’avventura galattica


Per comprendere appieno l’importanza di Iain M. Banks nel panorama fantascientifico degli ultimi decenni è opportuno fare un quadro breve e sintetico del momento storico in cui avviene la comparsa sulla scena letteraria dell’autore britannico.

Forgiata e portata all’apice del successo negli anni Trenta e Quaranta da autori come E.E. Doc Smith, Edmond Hamilton, Jack Williamson e Alfred Elton van Vogt, la space opera, o fantascienza d’avventura spaziale, è sempre stata un genere notevolmente resistente e flessibile, che è riuscito a sopravvivere, operando al suo interno varie trasformazioni, a decenni di cambiamenti culturali e politici e a tutte le nuove forme di espressione letteraria in seno al filone fantascientifico. A dispetto delle chiare ed evidenti incongruenze e assurdità (dal punto di vista strettamente scientifico) su cui spesso si basano, i racconti e romanzi di imperi galattici e astronavi più veloci della luce che tracciano le rotte tra mondi improbabilmente lontani tra loro hanno sempre goduto (e continuano a godere) di un grande successo tra i lettori, forse proprio per il fascino romantico implicito in quegli assunti di base a volte così aspramente criticati.

Naturalmente la validità e grandezza di autori come Isaac Asimov, Jack Vance, Poul Anderson, Gordon Dickson e Frank Herbert, veri e propri maestri nell’immaginare fantastiche e grandiose epopee future, hanno contribuito moltissimo alla fortuna di questo sottogenere.

Dagli anni Cinquanta in poi, tuttavia, la space opera, sia negli Stati Uniti sia in Inghilterra, si è trovata ad affrontare un chiaro momento di appannamento. La nascita della fantascienza di stampo sociale, in particolare quella spinta da Horace L. Gold sulla sua «Galaxy», e l’avvento di autori eccellenti come Frederik Pohl, Cyril Kornbluth, Robert Sheckley, Damon Knight, relegò la fantascienza avventurosa a un ruolo di secondo piano, su riviste meno quotate o in deciso calo di lettori e di evidenza, come «Amazing» e «Analog».

A questo trend contribuì in maniera decisiva anche la nascita della new wave e dei suoi araldi inglesi, James G. Ballard, Brian W. Aldiss e Michael Moorcock, che sulla rivista «New Worlds» di Ted Carnell venivano a proporre una fantascienza più sofisticata e cerebrale, se non addirittura sperimentale, attraverso l’analisi del cosiddetto “spazio interno” (inner space). 

Era una fantascienza di certo più attenta allo stile e all’introspezione dell’animo dei personaggi, che intendeva mostrare come anche questo genere letterario fosse in grado di proporre opere valide e potenzialmente degne di attenzione da parte di una critica mainstream che spesso si era mostrata sprezzante nei suoi giudizi sulla fantascienza avventurosa tradizionale. La loro controparte americana era incarnata da figure dirompenti stilisticamente ma meno sperimentali o di rottura rispetto agli autori britannici, come Roger Zelazny, Samuel Delany, Thomas Disch, e in parte anche Robert Silverberg, Ursula Kroeber Le Guin e Alice Sheldon (nel suo alias fittizio di James Tiptree Jr.). Questi autori risultarono complementari rispetto ai partner britannici in un sostanziale processo di rinnovamento della fantascienza e di allontanamento dalle ingenue avventure dei pulp degli anni Trenta e Quaranta.

Un colpo definitivo alla space opera vecchio stile lo diede infine il cyberpunk, movimento trainante degli anni Ottanta. In America, nella seconda metà di quel decennio, il cyberpunk di William Gibson, Bruce Sterling, Pat Cadigan, John Shirley, apparve dominante.

E tuttavia la realtà letteraria dell’epoca ha molte sfaccettature. In contrapposizione al movimento cibernetico dello spazio virtuale, la fantascienza tradizionale mostra un grande ritorno in auge grazie agli scrittori delle tre B, Gregory Benford, Greg Bear, David Brin, autori scienziati o molto vicini alla scienza che segnano la rinascita della hard sf e della fantascienza spaziale, della fantascienza definita un tempo “tecnologica”, basata su solide conoscenze scientifiche e tecnologiche, che aveva vissuto in passato apici di assoluto splendore con Isaac Asimov e Arthur C. Clarke, e più tardi con Larry Niven e John Varley.

A loro differenza e lontani anni luce (almeno apparentemente) anche dal cyberpunk troviamo un gruppo di autori che possiamo definire “umanisti”, come Kim Stanley Robinson e James Patrick Kelly, che dedicano grande attenzione agli aspetti umani e sociali delle loro estrapolazioni future. In realtà molti scrittori di questo periodo sono difficilmente classificabili, in quanto mostrano in opere molto diverse tra loro stimoli e impostazioni che possiamo far risalire a varie ascendenze, a volte soft, a volte hard o addirittura cyber, come per esempio nel caso tipico di Vernor Vinge, capace di immense epopee cosmiche come Universo incostante (A Fire Upon the Deep, 1992) e Quando tornerà la luce (A Deepness in the Sky, 1999), e poi di rivoluzionari romanzi a metà tra il cyber e l’umanesimo come Alla fine dell’arcobaleno (Rainbow’s End, 2006).

Arriviamo così a Iain Banks. È in questo contesto che si sviluppa, in particolare in Gran Bretagna, agli inizi degli anni Novanta, un fenomeno legato al rinnovamento della space opera con un’attenzione alla tradizione classica inglese. Il critico britannico Paul Kincaid, in un saggio del 2001 sulla fantascienza degli anni Novanta intitolato The New Optimism (Il nuovo ottimismo), così si esprime: «La fantascienza britannica, nel frattempo, stava seguendo una traiettoria diametralmente opposta a quella della sf americana. 

Mentre il cyberpunk americano di Gibson e Sterling ammetteva apertamente l’influenza della new wave inglese di Ballard e Moorcock, e scrittori come Colin Greenland in Take Back Plenty e Ian McDonald in Desolation Road offrivano un chiaro omaggio alla tradizione avventurosa americana della loro gioventù… lo scrittore più importante e influente di questa nuova corrente è sicuramente Iain (M.) Banks, da cui discendono chiaramente autori come Alastair Reynolds, Ken MacLeod, Paul McAuley (e qui mi permetto di aggiungere Robert Reed, con il suo eccellente ciclo della Grande Nave, e l’ancora, ahimè, sconosciuto in Italia, Neal Asher, con la serie della Polity). La fantascienza che Banks e i suoi seguaci hanno creato è basata su idee grandiose, senza limiti, in un universo immenso che si estende per galassie e galassie; è una fantascienza spesso divertente e idiosincratica, al di fuori delle vecchie regole e dei vecchi canoni, e spesso chiaramente ottimistica nella sua visione cosmica del futuro dell’umanità».

Il ciclo della Cultura di Banks, cui è dedicato questo volume, ci mostra un universo di ricchezza e diversità, di mondi che si estendono all’infinito, nella certezza di avere le risorse e le possibilità di fare ciò che si vuole: è la visione più utopistica del futuro dell’umanità che si possa incontrare nella sf degli ultimi decenni… Un futuro di ricchezza e libertà, in cui uomini e donne competenti e coraggiosi possono competere e combattere vittoriosamente le avversità e le forze oscure. Un futuro che, a parte le sue caratteristiche politiche ben distinguibili di una certa sinistra europea, potrebbe incarnare alla perfezione quello che era il sogno e l’emblema della fantascienza americana degli anni Cinquanta.

In sostanza, mentre gli americani delle tre B, Benford, Bear e Brin, vanno rinnovando la sf avventurosa e hard dall’interno, modificandone pian piano i canoni, gli spunti scientifici e le estrapolazioni tecnologiche, e mantenendo comunque viva una tradizione che risale ai pulp degli anni Trenta, Banks e alcuni suoi colleghi inglesi rivoltano come un pedalino il concetto di space opera

Non che Banks non riconosca, con le immense astronavi e i suoi giganteschi Orbitali (habitat artificiali nello spazio), l’influenza di Doc Smith e di Edmond Hamilton, ma forse anche di Larry Niven e del suo enorme mondo ad anello (Ringworld, 1970), e di John Varley e delle creazioni bizzarre e monumentali come Gaia, il mondo artificiale della omonima trilogia (Titan, 1979; Wizard, 1980; e Demon, 1984), ma lo fa con una sofisticatezza tutta sua, e forse britannica, contaminando questo bagaglio culturale con la tradizione dello scientific romance inglese, e soprattutto con lo sperimentalismo di Ballard, Moorcock e della new wave inglese. In fondo Banks fa sua la lezione del grande Brian Wilson Aldiss, che ha saputo affrontare, con opere come Cryptozoic (1967), Barefoot in the Head (1969) e soprattutto Report on Probability A (1968) la fase dello sperimentalismo, per poi tornare con la trilogia di Helliconia alla tradizionale fantascienza spaziale, seppure vista e rinnovata a modo suo.


Le prime opere e la giovinezza letteraria


A dire il vero le prime opere pubblicate di Banks non rientrano affatto nel genere space opera, anzi, in realtà non si possono definire nemmeno fantascienza. Possiedono tuttavia alcune caratteristiche di tipo immaginifico, orrorifico o surreale, come se l’autore si divertisse a giocare un po’ con i vari generi, passando senza soluzione di continuità dalla commedia grottesca all’horror al sogno visionario e all’incubo. È vero altresì che Banks aveva già composto almeno la prima stesura di alcune opere fantascientifiche (rifiutate, pare, dagli editori dell’epoca) al momento dell’uscita di questi primi tre libri che definiremo per semplicità “mainstream”.

Ricordiamo per inciso quanto già accennato all’inizio, e cioè come Banks abbia sempre voluto, nei suoi oltre venti anni di attività letteraria, distinguere la sua ricca produzione fantascientifica utilizzando il nome di Iain M. Banks, con la M intermedia che non compare invece in quella mainstream (altrettanto copiosa). Per quanto sia spesso obiettivamente visibile un cambio di stile tra le due categorie, va anche detto che, col passare degli anni, molte differenze tendono a sfumare e le due tipologie sembrano infine confluire.

Il primo romanzo pubblicato da Banks, The Wasp Factory (La fabbrica degli orrori, 1984), presentato in Italia nel 1996 (ma ristampato anche col titolo La fabbrica delle vespe nel 2012), è un caso tipico. In apparenza si tratta di una storia di adolescenza deviata; il protagonista diciassettenne, Frank, ci racconta la sua infanzia attraverso una serie di episodi piuttosto raccapriccianti: uccide con la stessa freddezza insetti, animali indifesi e fratellini paffuti, odia le donne e soprattutto la madre che non ha mai conosciuto, e attende il ritorno a casa del folle fratello maggiore, fuggito dal manicomio in cui era stato rinchiuso. Il romanzo si situa però a metà strada tra l’horror psicologico e il racconto allegorico: la storia del passaggio dall’adolescenza alla maturità del protagonista si manifesta infatti in una trasformazione sessuale dal genere maschile al femminile che sconfina nel fantastico puro.

Forte nel linguaggio, a volte sgradevole nell’esplicita violenza di certe scene, il romanzo non è affatto, e comunque non soltanto, un catalogo di orrori e sadismo come molti hanno voluto definirlo: si tratta di un’opera ricca di un vivace umorismo nero, indubbiamente una delle caratteristiche principali dell’autore. Accolto al suo apparire con sensazioni e opinioni contrastanti (non passò certo inosservato) da critica e pubblico, il romanzo è stato accostato a certi classici della letteratura fantastica come Orlando di Virginia Woolf, Il signore delle mosche di William Golding e La passione della nuova Eva di Angela Carter.

Walking on Glass (1985) propone un miscuglio di generi ancora più ardito e radicale. Anche questo romanzo narra del rito di passaggio di un adolescente paranoide: il protagonista immagina di essere un guerriero stellare rifugiato sulla Terra, perseguitato da maligni personaggi e trame oscure. A questa vicenda si intreccia una sorta di effettiva guerra fantascientifica combattuta dai rappresentanti di due civiltà che si sfidano in giochi e combattimenti tra i più bizzarri e assurdi.

The Bridge (1986), terza opera sperimentale e surreale di Banks, viene da alcuni (tra cui l’ottimo critico inglese John Clute) ritenuta il suo massimo capolavoro e sicuramente il migliore dei tre romanzi finora discussi. Pubblicato in Italia come Corpo a corpo nel 2001, e poi come Il ponte (2012), mescola ancora una volta immaginazione e realtà attraverso i sogni di un uomo che, dopo un grave incidente, si ritrova in stato di coma e rivive (o anticipa) momenti della sua vita, che vengono rappresentati su un palcoscenico immaginario: l’enorme ponte di Forth Bridge (un ponte realmente esistente nei pressi di Edimburgo) nei cui interstizi il protagonista proietta sogni e fantasie inconsce, immagina e/o vive episodi di combattimenti tipici della science fantasy, narrati in maniera parodistica ma con una insolita verve e ironia. Personalmente ho molto apprezzato il romanzo, che mi ha anche ricordato, nell’ispirazione e in certi passaggi, opere visionarie di James G. Ballard come Crash o The Atrocity Exhibition.


Pensa a Fleba e la nascita della Cultura


Dopo questi tre libri, invero piuttosto bizzarri e originali (anche se assai interessanti), Iain Banks sale alla ribalta del palcoscenico fantascientifico con un romanzo che si presenta come un vero e proprio tour de force, un’esplosione pirotecnica di invenzioni e fuochi d’artificio letterari, come se il virtuosismo immaginativo dimostrato nelle opere precedenti venisse infine incanalato nei territori a noi più consueti della fantascienza e della space opera, senza perdere nulla dell’originario vigore e della originalità tipica del Nostro. In sostanza sembra che qui l’autore abbia finalmente trovato il suo terreno ideale. Con stile e personalità Banks rivoluziona il dettato del genere avventuroso spaziale, inserendo trovate geniali in una narrazione mozzafiato, con un tono a volte drammatico, a volte grottesco, a volte riflessivo, ma di certo sempre innovativo.

Consider Phlebas (La Mente di Schar, 1987; Pensa a Fleba, 2002; il titolo inglese riprende un verso della celebre opera di T.S. Eliot La terra desolata) dà inizio in maniera spettacolare al ciclo della Cultura. Qui Banks introduce il suo universo futuro e ce lo descrive molto minuziosamente, dotando il libro di varie appendici, in cui si dilunga nella spiegazione sociale e politica che sta dietro alla nascita e allo sviluppo della Cultura, e anche ai motivi che la spingono, o costringono, alla terribile guerra con gli idirani, cui è dedicato questo primo romanzo del ciclo. 

La Cultura è un’enorme comunità interstellare, costituita per la maggior parte da esseri umani di vari pianeti (e in cui la simbiosi uomo-macchina ha raggiunto limiti quasi inconcepibili) ma anche da entità aliene. 

La storia del protagonista, Bora Horza Gobuchul, umanoide mutaforma, mercenario e spia di una delle tante sottospecie di umanità che popolano questo spettacolare e incredibile cosmo, si svolge sullo sfondo di un titanico conflitto alla van Vogt, in cui flotte di astronavi gigantesche e interi mondi vengono distrutti in pochi attimi. Si tratta dello scontro tra le forze della Cultura, liberale e sofisticata, e quelle della razza aliena degli idirani, che hanno lanciato una sorta di crociata e vogliono rintracciare una “Mente” della Cultura (un’intelligenza artificiale di incredibili capacità) fuggita sul lontano Mondo di Schar.

La Cultura è in effetti un’invenzione grandiosa e singolare, una concezione di immensa portata, con i suoi sofisticati prodigi tecnologici, le sue bizzarre razze aliene e società umane, le sue strane entità biomeccaniche, le megastronavi capaci di contenere intere città e milioni di passeggeri, gli immensi Orbitali come Vavatch, veri e propri mondi artificiali nello spazio. 

Universo futuro di stampo utopico, confederazione di mondi senza un imperatore alla sua guida (a differenza degli imperi futuri di Asimov e di Herbert), senza tentacolari multinazionali in lotta per il controllo delle risorse, senza Enclavi con poteri o materiali di inestimabile valore (come quelle della droga immaginata da Herbert nel suo Dune), senza gerarchie di vassalli e servitori, senza popoli in rivolta contro zar e oppressori che mantengono il potere attraverso l’uso della forza militare, l’universo della Cultura assomiglia un po’ ai conglomerati di mondi vanciani o all’Ekumene di Ursula Kroeber Le Guin. Di Vance, Banks possiede anche la bizzarria e la forza immaginifica, l’originalità delle nuove e sempre più bislacche invenzioni. 

A differenza di Jack Vance, più a suo agio nelle storie individuali e lineari, lui preferisce la grandezza megalomaniaca di un van Vogt; e come in van Vogt le sue astronavi sono immense, quasi mondi dentro mondi, e come nelle opere vanvogtiane le sue battaglie sono di portata straordinaria. Banks non si limita a combattimenti individuali ma ama esagerare: per lo scrittore scozzese davvero non esiste limite, e spesso le battaglie spaziali si concludono con la distruzione di interi mondi. D’altro canto la civiltà erudita e raffinata della Cultura è molto più vicina alla sofisticata visione futura di Vance che non all’immaginazione a volte “rozza” di van Vogt, autore appartenente comunque a un passato più remoto.

La Cultura è una comunità intergalattica regolata dal principio del progresso: i suoi cittadini vivono per secoli interi e le sue emanazioni (come il gruppo di contatto dello Stato dell’arte o la protagonista della Guerra di Zakalwe) monitorizzano e controllano la galassia a bordo di gigantesche astronavi guidate da intelligenze artificiali (le Menti) di enormi capacità, che sono un po’ i gangli del sistema di comunicazione su cui si basa questa società interstellare. Una civiltà che domina un’amplissima estensione dello spazio conosciuto. La Cultura lo fa tuttavia con ogni tipo di modi e mezzi, perciò differisce da tutti gli imperi galattici che abbiamo avuto modo di incontrare nel corso di tanti decenni di opere fantascientifiche: non domina con la forza, e non è nemmeno un impero decadente dai tratti neoromanici o neocinese. 

La Cultura si basa su un’interazione totale dell’umanità con le sofisticatissime IA che sono in grado, a volte del tutto autonomamente, di gestire una civiltà che si estende per milioni di anni luce, donando ai suoi cittadini un elevato grado di benessere, e tuttavia non rifugge dall’uso della forza e dell’inganno, dello spionaggio, dei mezzi più subdoli, quando è necessario. 

Capace di fornire benessere e ricchezza, pace e libertà, tecnologia e sofisticatezza, raffinatezza e edonismo, la Cultura è tuttavia in grado di interagire con sistemi e razze meno sviluppate in un gran numero di modi, dalla diplomazia alla meccanica tradizionale delle astronavi superarmate fino alle manipolazioni sottili dei suoi agenti speciali, capaci di trasformazioni incredibili per un corpo umano. I suoi agenti e amministratori mostrano tutto il range dell’umanità e delle sue capacità: cinici, geniali, visionari e ciechi allo stesso tempo. Da una parte costruzione utopica in senso stretto, dall’altra esempio comunque di una civiltà per nulla priva di difetti; sembra che Banks voglia dirci che non esiste e non esisterà mai la civiltà perfetta.

Inoltre è una società che ha abolito qualsiasi forma di predominanza di un sesso sull’altro. «Mi piacciono i personaggi femminili forti,» afferma Banks sulla rivista mensile inglese «SFX» (giugno 1995):

e la Cultura è una società post-sessista. Credo che il tipo di futuro rappresentato dalla Cultura sia un universo più femminile che maschile, dal punto di vista comportamentale. Un universo, cioè, che ha superato le dinamiche maschiliste a base di aggressività e testosterone per orientarsi verso un modello di rappresentazione al femminile

È in quest’ottica che va letta anche la figura di Balveda, la protagonista femminile di Pensa a Fleba. Balveda è un’agente della Cultura e si contrappone a Bora Horza Gobuchul, brutale assassino al soldo degli idirani e appartenente a una razza di Mutex, ovvero di umani capaci di modificare a volontà il proprio aspetto. È curioso appunto come Horza Gobuchul, umanoide metamorfo, singolarissima figura di “eroe dai mille volti” in cui è facile riconoscere il destino del Phlebas eliotiano (a cui fa esplicito riferimento il titolo originale), il marinaio fenicio annegato della Terra desolata, combatta proprio per gli idirani. E in fondo è giusto che sia così, perché chi si può opporre alla Cultura se non i cittadini di una razza che ha come propria essenza e missione il disordine, la mutazione, la libertà di scegliere un destino diverso (anche contro il proprio benessere) e non omologato? Horza rappresenta la mela nel giardino dell’Eden, il desiderio di una certa parte dell’umanità di non cedere a un semplice, benefico ma in fondo subdolo conformismo, di non lasciare alle macchine, per quanto evolute siano, la scelta del nostro destino, di non arrendersi all’omologazione a criteri e regole sane e confortevoli che però non possono soddisfare tutti gli istinti del genere umano.

L’universo futuro della Cultura rinnova dunque in più di un aspetto i canoni delle vecchie space opera incentrate su grandiosi e fantasmagorici imperi galattici, come Isher di van Vogt o come la Fondazione di Isaac Asimov o Dune di Frank Herbert.

Un solo romanzo non era certo sufficiente a mostrare tutti gli aspetti di questo universo futuro, e così in molte delle successive opere fantascientifiche, a partire da The Player of Games (L’Impero di Azad, 1989), l’autore si diverte a mostrarci altri prodigi tecnologici e nuove peculiarietà della sua creazione. Con un linguaggio, un amore per i dettagli bizzarri e una fantasia estremamente sofisticati, L’Impero di Azad narra la vicenda di Gurgeh, cittadino della Cultura e maestro dell’arte del gioco. Gurgeh vive su un Orbitale artificiale, ed è un tipico esponente di questa civiltà dalle infinite possibilità. Come potremmo aspettarci da un cittadino di una classica utopia, il protagonista è vagamente annoiato da questo mondo, in cui le feste e gli incontri sociali si succedono all’infinito, e anche dal proprio successo personale. Questa noia lo spinge a confrontarsi con un nuovo gioco, di complessità e proporzioni inconcepibili. Si ritrova così a bordo dell’astronave Fattore Limitante verso l’Impero di Azad. Azad è più di un mondo, più di un’entità politica: è un gioco, anzi il Gioco. Attraverso una serie di tornei i giocatori avanzano verso la posizione di Imperatore, ma le regole sono estremamente complesse e Gurgeh ha solo due anni di tempo per impararle: poi dovrà confrontarsi con i nativi, un popolo con tre sessi ancora piuttosto selvaggio che da sempre ha convissuto con queste regole.

Un po’ poema d’amore per la gioia del gioco, e un po’ avvertimento contro i pericoli psicologici del gioco d’azzardo (oggi diremmo “contro la ludopatia”), questa storia del più grande giocatore dell’universo, che vuole sfidare una società aliena dove le sorti delle giocate determinano le gerarchie del mondo reale, è forse il romanzo più completo e accessibile dell’intera serie.

All’interno del ciclo della Cultura si pone anche il satirico The State of the Art (Lo stato dell’arte, 1989), il romanzo breve che racconta l’incontro, volutamente ambientato da Banks nel nostro passato (per la precisione nel 1977), tra l’astronave Arbitraria della Cultura e il nostro pianeta: l’astronave fa scendere sulla Terra un gruppo di contatto composto da umanoidi e dalle loro eccentriche macchine intelligenti, in modo da poter osservare da vicino i nostri usi e costumi e decidere se meritiamo o no di continuare a sopravvivere, o se invece siamo una pericolosa razza barbarica da distruggere.

Nel 1991 esce l’antologia The State of the Art (Lo stato dell’arte), che comprende l’omonimo romanzo breve e altri sette racconti. La raccolta è un’eccellente dimostrazione della bravura di Banks anche nella narrativa di minor lunghezza. Il suo talento, la sua genialità emergono prepotentemente in Strada dei teschi, che in poche pagine ci fa conoscere due assurdi viaggiatori (che vedremmo benissimo all’interno di Aspettando Godot di Beckett), o in Pezzo, una sottile e terribile meditazione sulla libertà e sul fanatismo religioso. L’humour nero prevale anche in Dispari, in cui un alieno innamorato si domanda se è riamato o no, e in Pulizia, mordace satira della burocrazia. Anche se Banks è noto per le astronavi follemente enormi, per i droidi e le sue macchine buffe e bizzarre, rimane comunque un autore che non scrive mai solo per divertire, come dimostra il già citato Lo stato dell’arte o anche il più breve ma altrettanto intenso Un dono dalla Cultura, altro racconto presente nella raccolta.

Di notevole importanza nell’evoluzione letteraria di Banks è il terzo romanzo del ciclo, Use of Weapons (La guerra di Zakalwe, 1990), che racconta, a capitoli alterni e con un inconsueto meccanismo narrativo per cui una parte della storia procede a ritroso, la cupa vicenda di un mercenario al soldo della causa della Cultura. Il romanzo propone il tema del senso di colpa della Cultura nei confronti delle società e delle razze inferiori che hanno ancora problemi di scarsità di risorse e che vengono manipolate in maniera a volte cruenta (certo, apparentemente per una giusta causa, ma non sempre è vero che il fine giustifica i mezzi…). L’opera propone inoltre un nuovo, importante ritratto femminile: troviamo qui un’altra delle figure forti e determinate della Cultura, l’agente Diziet Sma (presente anche nello Stato dell’arte), il cui rapporto con Zakalwe, suo mercenario e forse amante, rimane duro, ambiguo e mai esplicitamente chiarito. In questo romanzo Banks ribadisce un concetto già espresso chiaramente in Pensa a Fleba, e cioè che, per quanto nobile nei suoi scopi, la Cultura è in grado di interagire con gli altri sistemi sociali in vari modi, passando con assoluta indifferenza (quando necessario) dalla diplomazia alla guerra più convenzionale, per arrivare a inganni eclatanti o stratagemmi e intrighi nascosti. I suoi agenti, come Diziet Sma e Zakalwe, possono anche dimostrare, dietro un’apparenza di sofisticata intelligenza, un vero e proprio cinismo o una visionaria follia (come nel caso di Zakalwe). Ma Use of Weapons è soprattutto la storia di un uomo, Cheradenine Zakalwe, alla ricerca di se stesso e dei motivi che lo spingono a gettarsi nelle azioni e avventure più pericolose, a compiere i lavori più sporchi per sfuggire a dubbi e rimorsi, a qualcosa che risiede nel profondo della sua memoria e del suo animo: un terribile segreto di famiglia che risale all’epoca della sua gioventù e che lo consuma interiormente. Tetro e scioccante è il finale dell’opera, in cui la narrazione a capitoli a ritroso ci porta infine alla rivelazione incredibile che sta alla base della vicenda.

Si tratta di un romanzo profondo e riflessivo, a volte grottesco, che a nostro avviso costituisce il capolavoro assoluto di Banks: nel cupo alternarsi di lontane memorie e di vivaci e rutilanti avventure, Banks investiga la natura e l’uso delle armi a vari livelli, nel labirinto dello spaziotempo che è costituito, su scala macroscopica, dal gioco galattico della Cultura e, su scala umana, dalla mente tormentata di Zakalwe.


La maturità letteraria


Against a Dark Background (L’arma finale, 1993) è la prima avventura galattica ambientata al di fuori del ciclo della Cultura (o almeno così deduciamo, visto che l’autore non ne fa cenno nel corso dell’azione). Il titolo originale, letteralmente “Su uno sfondo oscuro”, è particolarmente appropriato dato che, un po’ sulla scia di Use of Weapons, Banks continua a raccontare vicende drammatiche e piuttosto tragiche. Per carità, siamo sempre nell’ambito del genere avventuroso e la vicenda è ravvivata dai soliti sprazzi di colorita fantasia e di esotiche invenzioni, ma il tono generale è davvero cupo. Il romanzo si apre con una scena violenta in cui una bambina assiste a un crudele assassinio e si conclude in maniera drammatica dopo una serie di tremende avventure che vedono coinvolta l’eroina, Lady Sharrow, impegnata nella ricerca delle incredibili Lazy Guns (“Pistole Pigre”), devastanti e infallibili. Si tratta di armi leggendarie, progettate dalla più vasta intelligenza artificiale mai esistita e capaci di decidere autonomamente quale tipo di violenza o barbarie infliggere al bersaglio prescelto, capaci di provocare a loro discrezione cataclismi naturali o esplosioni nucleari: armi finali o forse addirittura creature senzienti, che hanno scoperto e domato i segreti del tempo e dello spazio.

Feersum Endjinn (Criptosfera, 1994) mostra un ritorno di Banks a toni più leggeri e a quel sense of wonder tipico della migliore space opera. La storia, ambientata in un lontanissimo futuro su una Terra in piena decadenza, narra le vicende di Re Adijine e dei suoi sudditi alle prese con una terribile minaccia cosmica, una pericolosissima nube di polvere galattica al cui interno si va spostando il nostro sistema solare e che potrebbe causare una catastrofe di proporzioni inimmaginabili, superiore a quella che sconvolse la Terra e provocò l’estinzione dei dinosauri. Il monarca e i suoi tecno-artigiani non possiedono la tecnologia (e nemmeno la coesione e la volontà) necessaria per fronteggiare il pericolo che incombe su di loro. Da questo spunto iniziale potrebbe sembrare che Banks si stia ispirando a Jack Vance (per quanto riguarda la Terra futura e l’ambientazione feudale) e un po’ a Edmond Hamilton (per la minaccia cosmica). In realtà da queste premesse, in modo sempre originale, Banks si sposta per raccontare una vicenda dai toni vagamente cyberpunk. La Terra futura da lui descritta non è la solita civiltà decadente e neomedievale, nonostante il monarca e gli occasionali mostri, fantasmi e chimere, bensì una società cibernetica basata su un archivio immenso noto come “la Cripta”, un database antico e misterioso che è un vero e proprio calderone di sogni e mondi virtuali e in cui solo l’élite dei Criptografi riesce a muoversi. Il romanzo, nel suo insieme, risulta assai godibile, anche se Banks, per non smentirsi e con perversità joyciana, introduce un ulteriore elemento di complessità costituito da un linguaggio deforme che contraddistingue le sezioni ambientate nel criptospazio (nonché il titolo stesso dell’opera, deformazione dell’inglese fearsome engine, vale a dire “motore terribile” o “macchina infernale”).

Excession (L’altro universo, 1996), vincitore del British Fantasy Award, è a mio modesto parere probabilmente la meno riuscita tra le space opera di Banks. Qui vediamo, strano a dirsi, la Cultura minacciata da una misteriosa entità, più pericolosa di qualsiasi altra incontrata in precedenza. L’entità, una perfetta sfera nera, assolutamente inerte, proveniente forse da un’altra dimensione, potrebbe distruggere la Cultura, o comunque fornire la chiave per la distruzione delle “griglie d’energia” che separano gli universi. Purtroppo l’idea di base non è sviluppata dall’autore con molta coerenza: troppi personaggi, troppe storie parallele, troppi punti di vista, troppi esotismi che colpiscono ma alla fine disorientano il lettore. In definitiva Excession risulta un po’ troppo… “eccessivo”.

In tutto questo periodo, e fino ai giorni nostri, Banks continua comunque a produrre anche opere mainstream (per quanto possa essere classificata in questo modo un’opera di Banks) con grande continuità e profusione. Tra queste ricordiamo Canal Dreams (1989), The Crow Road (1992), Espedair Street (1987), Whit (1995), The Business (1999) e soprattutto Complicity (Complicità, 1993), un magnifico thriller psicologico che assume toni addirittura dostoevskiani.

A Song of Stone (Canto di pietra, 1997) appare sotto il nome di Iain Banks, senza la M mediana che contraddistingue le opere fantascientifiche. E tuttavia, a dimostrazione che le due componenti spesso si confondono e si sovrappongono, non si può proprio affermare che si tratti di un romanzo mainstream. Ambientato in un mondo senza tempo e senza nome, devastato da una guerra barbarica, tra cumuli di macerie e colonne di profughi in fuga, narra l’assalto da parte di una banda di soldati irregolari (guidati da uno dei forti, ambigui e determinati personaggi femminili tipici di Banks) a un maniero in cui sono nascosti gli ultimi discendenti di un’antica famiglia aristocratica, Abel e la sorella-amante Morgan. Ritenuto da molti critici letterari inglesi di autorevoli quotidiani («Times», «Sunday Telegraph») un capolavoro della narrativa apocalittica, Canto di pietra può essere considerato una favola gotica, un libro cupo e memorabile in cui Banks esplora, con la consueta sottigliezza e con toni che vanno dal grottesco al tragico, la disperata condizione umana del narratore Abel, in un crescendo di tensione e di suspense.

Inversions (Inversioni, 1998), vincitore del Premio Italia, viene invece pubblicato con la M mediana e quindi, per definizione, dovrebbe rientrare nella categoria delle opere di fantascienza. In realtà è molto lontano, come struttura e come impostazione, dagli altri romanzi fantascientifici. Siamo nel Regno di Haspidus, su un pianeta con due soli, e un apprendista di nome Oelph racconta la storia del suo maestro Vosill, medico personale del re. Vosill non è molto popolare a corte: ha strane idee, troppo moderne e anticonformiste e, peggio ancora, è una donna, per di più straniera. Nel frattempo, nel lontano Protettorato di Tassassen, un altro personaggio, DeWar, guardia del corpo del governatore di Tassassen, il generale UrLeyn , deve affrontare difficoltà dello stesso tipo. Nobili e ufficiali sono molto sospettosi nei suoi confronti e DeWar vive in uno stato di costante paranoia. Le storie di questi due personaggi non si incrociano mai durante la narrazione, ma c’è qualcosa che li accomuna e che unisce le parti distinte e alternate del libro: appartengono ambedue alla Cultura. A dispetto di questo particolare, il romanzo è, come dicevamo in precedenza, molto diverso dalle altre storie del ciclo: mancano le astronavi lunghe chilometri, mancano le Menti, mancano i buffi droidi, e a dire il vero il libro potrebbe benissimo passare per una fantasy medievaleggiante o per un romanzo storico con un’ambientazione peculiare. In realtà Banks, come ha affermato lui stesso, si è fatto un po’ beffe dei suoi lettori (in senso buono ovviamente): voleva scrivere una storia diversa da quelle cui aveva abituato i suoi fan, una storia più vicina alla fantasy ma che non fosse un’altra interminabile trilogia o pentalogia. Il risultato è uno splendido romanzo, una nuova profonda riflessione sull’animo umano, una storia meno pirotecnica del solito ma più focalizzata sui due magnifici personaggi. Vosill e DeWar infatti, per quanto cittadini della Cultura, sono entrambi complessi esseri umani, con le loro contraddizioni, non molto differenti in fondo dai regnanti e dai servitori che popolano le corti del Regno e del Protettorato.

Giungiamo così a Look to Windward (Volgi lo sguardo al vento, 2000), titolo ripreso, come Consider Phlebas, dalla Terra desolata di T.S. Eliot. In fondo, con questo romanzo Banks ritorna negli stessi territori della sua prima opera di sf: verso la fine della guerra tra la Cultura e gli idirani due stelle erano state completamente distrutte, causando la morte di miliardi di persone. Siamo ora ottocento anni dopo questa catastrofe, e la luce di quei due soli sta per raggiungere l’Orbitale della Cultura di nome Masaq’, un anello enorme lungo dieci milioni di chilometri e largo quanto l’Australia, con un fiume che si dipana lungo tutta la superficie. È tempo di sobrie celebrazioni e meditazioni, perché, come afferma il famoso compositore chelgriano Ziller, «danziamo alla luce di antichi errori». A Ziller, che vive in esilio dopo una disastrosa guerra civile su Chelgrin, è stata commissionata una sinfonia da eseguire durante gli ultimi istanti del passaggio della luce del secondo sole morente, ma anche gli altri personaggi del libro sono oppressi da un senso di morte e di perdita, come Hub, l’intelligenza artificiale che governa l’Orbitale Masaq’ e che fu protagonista della stessa guerra contro gli idirani. Certo, si tratta sempre di un romanzo della Cultura, con tutte le stranezze tipiche del ciclo, come i “Grandi Oggetti Stupidi e Assurdi” (Big Dumb Objects), come l’Orbitale Masaq’ e l’Aerosfera abitata dai quasi immortali “beematauri”, o come le altezzose Sonde o le astronavi dai nomi ridicoli e dalle dimensioni inconcepibili. In realtà, per quanto l’umorismo si affacci spesso alla superficie dell’opera, questa rimane pervasa dalla malinconia per la scomparsa delle persone care. Look to Windward è in fondo una meditazione sulla morte, come dice giustamente Jonathan Strahan su «Locus»: 

Eliot nella Terra desolata mette in guardia dal volgere lo sguardo nella direzione da cui proviene il vento, per evitare il pericolo di ricordare quelli che sono “caduti”. Banks dà lo stesso avvertimento in un romanzo che combina il meglio di Doc Smith e di Jack Vance… È un romanzo elegante e morale.


Gli ultimi inediti


Per completezza dedichiamo infine due parole anche ai romanzi ancora inediti in Italia, tutti scritti dopo il 2000, nella speranza che vengano presto pubblicati anche nel nostro paese.


  • The Algebraist, del 2004, nominato per il premio Hugo, non fa parte del ciclo della Cultura ma è comunque un romanzo di ottima fattura, ambientato in un futuro lontano (siamo nel 4034), in un sistema solare ai margini della galassia. Fassin Taak, il protagonista, svelto e intelligente come i migliori personaggi di Banks (da Horza a Gurgeh a Zakalwe), deve muoversi in mezzo ai pericoli e alle insidie di una civiltà barocca, feudale e pseudo barbarica, ancora non connessa alla vigente egemonia galattica della Mercatoria (anche se manca la Cultura, abbiamo tuttavia una analoga confederazione di mondi): Taak è incaricato infatti di cercare un segreto nascosto da più di mezzo miliardo di anni. La presenza degli “Abitatori” (Dwellers), una antica razza non umanoide, avanzata tecnologicamente ma di stampo anarcoide, che vive un’esistenza millenaria sul gigante gassoso ed è ritenuta in possesso di devastanti armi militari, aggiunge un tocco di fascino all’opera. Complesso, turbolento e spettacolare come il gigante gassoso su cui è ambientato, The Algebraist rimane uno dei migliori romanzi della sua annata.

  • Con Matter, apparso nel 2008 e arrivato secondo all’importante Locus Poll (la statistica sulle migliori opere dell’anno precedente), torniamo nell’universo della Cultura, continuando con la grandiosità di concetti tipica del Nostro, e anche con la sua sottile ironia. In effetti, un po’ come in Inversions, Banks si diverte a raccontarci perfidi intrighi dinastici tipici di una certa fantasy moderna, e in particolare del ciclo di Westeros di George R.R. Martin. La storia riguarda appunto un principe non proprio brillante, Ferbin, che è testimone dell’assassinio del proprio padre, Re Hausk. Il killer, Tyl Loesp, è il secondo in ordine di comando di Hausk, e si propone di usurpare il trono di Ferbin. Quest’ultimo ha due fratelli, il giovane Oramen e la sorella Djan Seriy, la più sveglia dei tre. Il romanzo narra, a capitoli alternati, le vicende dei tre protagonisti, senza distinguersi in questo da molti romanzi fantasy moderni. E tuttavia ci sono anche molti elementi fantascientifici tipici del ciclo. Djan Seriy, trattata con molta attenzione nella cultura medievaleggiante del suo popolo, è stata mandata al di fuori del pianeta, che in realtà più che un pianeta è un mondo fatto a cipolla, con strati sovrapposti e collegati da transporter, le Torri. Djan è stata dunque inviata all’esterno, nello strato dove risiede la Cultura, ed è stata addestrata come un agente della famosa sezione Circostanze Speciali. È quindi un personaggio formidabile, come tutti gli agenti della Cultura, assai più forte e abile in qualsiasi combattimento rispetto agli altri umani del suo mondo natale. È ovviamente il suo intervento a risolvere le drammatiche situazioni in cui versano i fratelli. Non mancano altre sorprese, come una razza misteriosa ormai scomparsa, gli Iln, di cui viene scoperto un misterioso e temibile manufatto, dalle capacità altamente distruttive.

  • Surface Detail (2010) è un romanzo della Cultura a tutti gli effetti, pieno di meraviglie tecnologiche: ritornano gli Orbitali, le titaniche astronavi, e non mancano nemmeno le Menti, vale a dire le intelligenze artificiali che tanto potere hanno in questa civiltà futura. Banks non si tira indietro neanche di fronte alle frontiere del postumano, e del ritorno dalla morte attraverso l’utilizzo di banchi di memoria che immagazzinano le personalità e le menti umane per poter poi riesumare i morti. Né mancano i principi morali che pervadono la Cultura, principi su cui la società si concentra con tutte le sue forze, senza farsi scrupoli di utilizzare, quando necessario, armi strategiche tecnologiche e umane (come appunto il già citato corpo delle Circostanze Speciali) e focalizzando le sue risorse con una ferocia unica. È in questo universo che si svolgono le esotiche avventure (non senza il tipico pizzico di satira e ironia) dei protagonisti del romanzo, mossi da un mix di idealismo e solido realismo. Come è sua abitudine, l’autore ci propone una serie di possibili protagonisti che non esita tuttavia a far uscire presto di scena con colpi mancini all’indirizzo del lettore. Lededje Y’breq, per esempio, è una possibile eroina: una donna Intagliata, marcata su tutto il corpo come proprietà di Joiler Veppers, l’uomo più ricco e potente della sua civiltà. Un altro esempio è il coscritto Vatueil, una volta capitano di cavalleria ma ora decaduto, che sopravvive nelle segrete di un imprendibile castello in perenne guerra col nemico. E così via. A volte queste morti sono reali, altre volte virtuali. Tra i vari personaggi ci sono anche due bizzarri alieni imprigionati in una sorta di afterlife, non ancora definitivamente defunti ma intrappolati in un ambiente virtuale. Tra morti violente e resurrezioni virtuali, tra astronavi mostruose e distruzioni gigantesche, tra misteriosi alieni imperscrutabili e umani di vario genere, Banks ci stupisce con uno dei romanzi più affascinanti e complessi della serie.

  • Transition (2010) è ambientato ai giorni nostri, in un mondo pieno di cospirazioni e assassini, con un’organizzazione quasi onnipotente che si accinge a conquistare il pianeta. In un viaggio che passa dai picchi del Nepal a una cupa versione della Londra vittoriana, fino ai palazzi di una spettrale Venezia, si aggirano personaggi come il torturatore senza volto noto come “il Filosofo”, la rinnegata signora Mulverhill, che vuole reclutare i ribelli dell’organizzazione, e il misterioso Paziente 8262, che si nasconde da un passato violento in un dimenticato settore d’ospedale. Pian piano il cerchio si stringe attorno ai vari personaggi, in una narrazione avvincente a metà tra la fantascienza e i thriller di Dan Brown.

  • The Hydrogen Sonata (2012) è il capitolo finale del ciclo della Cultura. Anche qui abbiamo un Banks al top della forma. Gli Gzilt, una delle razze umane fondatrici della Cultura, sono ormai pronti alla “sublimazione” verso un altro piano di esistenza ma prima devono sistemare alcune vecchie questioni. Mentre tutti gli inviati delle altre razze vengono a dare il commiato finale agli Gzilt, uno sfortunato delegato, latore di un misterioso messaggio, viene ucciso in circostanze oscure. Tutto ciò mette sul chi vive le Menti della Cultura. Le IA si insospettiscono e cercano di capire il motivo di questo strano delitto. Perché una società che sta per abbandonare questo livello di realtà dovrebbe commettere un omicidio di tale portata? L’investigazione condurrà a una donna Gzilt di nome Vyr Copssont, che sta passando gli ultimi giorni della sua civiltà nell’esecuzione del pezzo musicale che dà origine al titolo.

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