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L'uomo nell'alto castello di Philip K. Dick: l'introduzione di Emmanuel Carrère all'edizione Oscar Cult

Esce in una nuova bellissima edizione Oscar Moderni Cult l'opera del genio assoluto della letteratura americana del secondo Novecento


Appena uscito, il romanzo L'uomo nell'alto castello, conosciuto anche come "La svastica sul sole", ha ispirato l'omonima serie Amazon disponibile su Prime Video 


Tutti i volumi hanno un'introduzione del grande scrittore francese Emmanuel Carrère. Qui sotto un'anteprima all'ultimo volume pubblicato, L'uomo nell'alto castello, appunto:


C’è un grosso raccoglitore di cartone che non apro da ventisette anni. Riporta un titolo scritto con un evidenziatore, PKD, e contiene differenti versioni, redatte fra il 1990 e il 1993, di quella che sarebbe poi diventata la mia biografia di Philip K. Dick, Io sono vivo, voi siete morti. Fa uno strano effetto sfogliare queste carte che risalgono a prima del computer e dei software di videoscrittura. Questo è l’ultimo libro che ho scritto picchiando sui tasti di una macchina da scrivere, di quelle con il carrello che tintinnava a fine corsa. All’epoca era un grande tema di conversazione fra scrittori: «Ti sei convertito? Mac o PC?». C’erano i pionieri (non ero tra loro), i temporeggiatori (ero tra loro), e poi gli irriducibili, convinti che il computer si prefiggesse astutamente di scrivere in loro vece, defraudandoli del loro stile prezioso, della loro sacrosanta ispirazione. Tutto questo è ormai lontano. 

Chi poteva immaginare che presto sarebbe arrivata una cosa come Internet. Prima della sua esistenza nessun autore di fantascienza, nemmeno Dick, avrebbe concepito, perfino nei suoi sogni più sfrenati, qualcosa di lontanamente simile a Internet. Comunque. Oltre alle cartelle piene di pagine dattiloscritte, nel mio raccoglitore c’è un piccolo taccuino, e su ogni pagina di questo piccolo taccuino una colonna di sei linee intere o spezzate, con frasi come: «La perseveranza è propizia. Aver cura della vacca reca salute». Oppure: «Liberati dal tuo alluce. Allora il compagno se ne viene e di lui puoi fidarti». Se nel leggere questo sorridete come quando si ritrova un vecchio amico, vuol dire che conoscete l’I Ching. In caso contrario, preparatevi una buona tazza di tè, o un whisky, e sedetevi: ora vi spiego. 

Verso la fine del Diciassettesimo secolo, alcuni missionari gesuiti riportarono dalla Cina un libro misterioso che aveva fama di essere il testo più antico della più antica delle civiltà e la chiave della sua saggezza. Questo libro era l’I Ching. Nell’opera, l’intero universo viene ricondotto alla combinazione dei due principi complementari, yin e yang, che per brevità si possono identificare con l’ombra e la luce, la staticità e il movimento, la terra e il cielo, il freddo e il caldo, e così via. Una tecnica semplice, tipo testa o croce, permette di comporre ognuna di quelle colonne di linee intere o spezzate registrate nel mio taccuino. L’I Ching, in effetti, non è tanto un libro quanto un computer: in sessantaquattro esagrammi, non uno di più non uno di meno, analizza l’infinita varietà della vita e delle situazioni che il suo fluire modifica in ogni istante. È per questo che si chiama Il Libro dei Mutamenti. Non descrive degli stati fissi ma le tendenze che li animano. Insegna che ogni momento è un passaggio, che l’apogeo annuncia il declino, e la disfatta la futura vittoria. A colui che brancola nel buio, predice il ritorno della luce; a colui che esulta sotto il sole glorioso di mezzogiorno, annuncia che il crepuscolo, di nascosto, è già cominciato; e all’uomo saggio rivela l’arte sottile di lasciarsi condurre dagli eventi, come una barca vuota si lascia trasportare dalla corrente del fiume.

Nei due secoli successivi, di queste frasi criptiche furono pubblicate svariate traduzioni. Ma, nonostante la passione suscitata in uno spirito come quello di Leibniz, non si spinsero mai oltre la cerchia degli orientalisti. Questo fino al 1924, quando Richard Wilhelm, un missionario tedesco innamorato della Cina, propose una traduzione di eccezionale qualità che di colpo fece aumentare l’interesse dei lettori per l’I Ching. Carl Gustav Jung fu uno dei suoi più ardenti seguaci, e fu proprio una delle sue allieve, Cary F. Baynes, a pubblicarne la versione americana. Negli anni Cinquanta, quest’opera riscosse un successo sotterraneo e fecondo, che nei due decenni a seguire si trasformò in una vera e propria moda. Il compositore d’avanguardia John Cage se ne servì per trarne progressioni di accordi, alcuni fisici per determinare il comportamento delle particelle subatomiche, e in seguito divenne un accessorio essenziale dell’armamentario degli hippies.

Dick scoprì l’I Ching nel 1960. Aveva trentadue anni e da quasi dieci viveva di ciò che usciva dalla sua macchina da scrivere. Avrebbe voluto essere uno scrittore serio, ma nessun editore voleva accumulare romanzi mainstream nei propri cassetti, e lui cominciava ad ammettere, anche a scapito del suo amor proprio, che ciò che aveva di più originale da dire, e che nessuno a parte lui avrebbe potuto dire, passava per queste storie di omini verdi e dischi volanti che venivano definite fantascienza e che i lettori più raffinati disprezzavano con tutto il cuore. A quell’epoca aveva già scritto due o tre libri che retrospettivamente giudichiamo importanti, come Occhio nel cielo e Tempo fuor di sesto, ma intuiva, seppure in modo confuso, di essere sulla soglia di qualcosa di molto più grande: qualcosa che non soltanto avrebbe divertito i lettori, ma avrebbe cambiato la loro percezione del mondo. Altrettanto confusamente, non si vedeva più come un intrattenitore, bensì come un filosofo mascherato e forse come un mistico selvaggio, rivelatore di una verità nascosta. 



Ai tempi dei suoi esordi letterari, c’era un racconto di uno dei suoi colleghi, il sagace Fredric Brown, che aveva molto apprezzato: scienziati di tutto il mondo collaborano alla costruzione di un gigantesco computer, nel quale inseriscono tutti i dati che compongono il sapere umano, con un programma in grado di connetterli fra loro. (Pensava a qualcosa di centralizzato, un marchingegno tipo Grande Fratello: e ancora una volta, nessuno aveva previsto l’avvento di Internet.) Arriva il momento solenne di far partire la macchina. Con mano tremante, l’ingegnere del progetto digita sulla tastiera la prima domanda: «Esiste Dio?». La risposta non si fa attendere: «Adesso sì». 

In un certo senso, l’I Ching assomigliava a quel computer, e la combinazione dei suoi sessantaquattro esagrammi a un programma in grado di comprendere – nei due sensi del termine, capire e includere – l’intero universo. Per un inventore di domande capitali, sempre alla ricerca di un’istituzione a cui porle, quel testo parve un vero e proprio dono degli dèi. Dal giorno in cui ne fece la scoperta grazie a un saggio di Jung, l’antico oracolo cinese divenne per lui un compagno fedele, e tale sarebbe rimasto fino alla sua morte. Phil vi si convertì insieme al suo intero entourage, entourage che, data l’agorafobia di cui soffriva, si riduceva alla terza moglie, Anne, e alle sue tre figliolette, con le quali, nella tranquilla cittadina di Point Reyes a sessanta chilometri a nord di San Francisco, conduceva una vita che già si era fatta molto meno tranquilla, dato che la pace non era mai stata il suo forte. Tutta la famiglia prese a interrogare l’I Ching su qualsiasi possibile questione. Avrebbe dovuto cambiare la macchina? Avrebbe dovuto tentare, almeno un’ultima volta, di scrivere un romanzo mainstream? La loro coppia, nonostante i continui litigi, aveva un futuro? Era una buona idea che Anne aprisse un laboratorio di bigiotteria? Quale scegliere fra due marche di corn flakes? E, dal momento che l’I Ching forniva una propria opinione su tutto, non c’è da meravigliarsi che Phil lo avesse arruolato per scrivere un libro insieme a lui.

La sua unione era in crisi… Chiunque fosse la compagna, la sua unione era sempre in crisi. Sperando di sfuggire all’opprimente atmosfera domestica, Anne aveva seguito il consiglio dell’I Ching e aperto il famoso laboratorio di bigiotteria. Phil le invidiava quell’attività così psicologicamente rilassante. Esaminando i gioielli che venivano realizzati, paragonava con tristezza la loro solida compiutezza con la struttura dei propri romanzi, che gli sembravano grossolani e orribilmente rappezzati come il mostro di Frankenstein. Lui aspirava alla perfezione di una sfera, a realizzare qualcosa che avesse i giusti pesi, e in un’unica colata. Consultava volumi sull’arte tradizionale giapponese, dove si parlava di un punto in cui gli opposti si bilanciano come lo yin e lo yang, in accordo con quanto detta il Tao. Sognava un libro che possedesse proprio questa armonia, ma si sentiva terribilmente inadeguato a scriverlo, perfino a concepirlo. Stava male, e più stava male più si rendeva insopportabile in famiglia. Anne gli fece una proposta: perché non installarsi in quel piccolo capanno che non serviva a nessuno e che si trovava in un campo isolato, a dieci minuti a piedi dalla loro casa? Lui esitò, sapendo che se avesse accettato si sarebbe poi ritrovato spalle al muro. Se non l’avesse scritto lì, il libro dei suoi sogni, il libro che non era intrattenimento bensì rivelazione, non avrebbe più scritto niente. Quel capanno sarebbe stata la sua ultima spiaggia, dopodiché: il baratro. Doveva uscirne vittorioso o morto.

Eccolo nel capanno. Posati sul tavolo, accanto alla macchina da scrivere, ci sono i due volumi neri dell’I Ching nell’edizione Baynes – in Francia è il grosso volume giallo dell’edizione Perrot, non so quale sia l’equivalente italiano. Lui è seduto. Attende. Certe immagini, certe idee su cui ha spesso rimuginato galleggiano sulla superficie della sua coscienza. Intuisce che alcune di quelle immagini, alcuni di quei pensieri troveranno il loro posto nel libro, però occorre pazienza. Bisogna lasciare che vadano alla deriva, dice il Tao, in balia della corrente. Al centro di questo moto ondoso, appare l’immagine del gioiello. Niente di prezioso, ma se ci si sofferma a guardarlo, a esaminarlo con attenzione, si avverte un cambiamento interiore. L’onda si placa, sostituita dal pacifico fluttuare del Tao. Niente più conflitti, o meglio, talmente bilanciati da non essere più nemmeno percepiti come tali. È necessario che questo gioiello sia nel libro, pensa Phil. Il libro deve essere a sua immagine. Ma come può, se deve parlare di nazismo, tema verso cui i suoi pensieri si orientano ossessivamente da mesi, se non da anni?

Perché un libro prenda vita, credo che occorrano almeno due cose, come i due pezzi di legno o di pietra focaia affinché scaturisca una fiamma. Le due cose sul tavolo di Phil sono l’I Ching e il nazismo. Due cose che non sembrano affatto compatibili, ma che, almeno nella sua testa, vanno insieme, come vanno insieme la notte e il giorno, il bene e il male, la plenitudine e l’abisso, la saggezza e lo spavento. Sono anni che legge tutto quello che può sul nazismo. Ha letto gli atti originali del processo di Norimberga. Conosce bene il pensiero e l’opera di Hannah Arendt. Non ha ancora letto La distruzione degli Ebrei d’Europa, il libro pubblicato di recente da un oscuro universitario di nome Raul Hilberg, che a quel tempo non ha ancora letto nessuno. Sa da tempo che il giorno in cui scriverà qualcosa di serio sarà su questo tema. Il nazismo: chiunque abiti il mondo nella seconda metà del Ventesimo secolo deve farci i conti, convivere con l’idea che è successo. Ma allora l’I Ching, il Tao? Nulla è più lontano dal Tao del nazismo. Eppure i giapponesi, che venerano il Tao, sono stati alleati dei nazisti. Se avessero vinto loro… Immagino Philip trastullarsi con questa idea che, se in seguito diventerà un luogo comune della narrativa moderna, lo si deve in gran parte proprio a lui. Sono già stati scritti altri libri basati su questo principio, lui ne ha letto uno secondo il quale il Sud ha vinto la Guerra di Secessione. Questo tipo di libri viene chiamato ucronia, un termine che Dick non ha mai sentito, ma io che sto lavorando a questa prefazione, nel 1982, l’anno della sua morte, ho scritto un libricino su questo genere, all’epoca ancora poco conosciuto: si intitolava Le Détroit de Behring. Come sarebbe, si domanda Dick, un mondo nato vent’anni fa dalla vittoria dell’Asse? Chi governerebbe il Reich? Sempre Hitler o uno dei suoi luogotenenti? Uno psicopatico come Himmler o un brillante tecnocrate come Albert Speer? Questo cambierebbe qualcosa? Cambierebbe qualcosa per lui, Phil Dick, scrittore proletario e depresso, residente a Point Reyes, nella Contea di Marin?

Gli fa uno strano effetto immaginare non un ipotetico futuro, quanto un diverso passato. Più ci pensa, più quel passato e il presente che ne deriva acquistano consistenza. Sarebbero potuti esistere. Esistono, in un certo senso. Si servono del suo cervello, per esistere. Ma possono esistere sotto mille forme diverse, a seconda delle scelte che lui opera. In ogni istante, miriadi di eventi accadono o non accadono. In ogni istante, delle variabili si trasformano in dati, il virtuale diviene reale, ed è così che in ogni istante il mondo presenta uno stato diverso. Potendo accadere tutto, normalmente si ritiene sia Dio a decidere che accada una cosa invece di un’altra. Phil non credeva in Dio, o altrimenti in un dio talmente personale e stravagante che si sarebbe fatto prima a dire che era lui stesso. In compenso credeva all’I Ching, ed è a lui che si rivolgeva per tutte le decisioni riguardanti l’avvio e lo sviluppo del libro. Quando gli veniva un’idea la sottoponeva all’I Ching. L’I Ching di rado dice sì o no, le sue risposte sono più evasive ed enigmatiche, ma è proprio questo a renderle così stimolanti. Interpretandole, si comprende meglio il senso nascosto della domanda, un senso che spesso nemmeno si sospettava. E così, lancio dopo lancio, comincia a prendere forma un mondo che le potenze dell’Asse si sono spartite dopo la loro schiacciante vittoria del 1947. L’Europa, l’Africa e l’America orientale fino alle Montagne Rocciose spettano al Reich. Il cancelliere Martin Bormann vi porta avanti la politica del suo predecessore, trasformando un’ampia percentuale di quelle popolazioni in saponette, e il continente africano in… non si sa bene cosa, e si preferisce evitare di pensarci. Sull’Asia, il Pacifico e l’America occidentale, il Giappone impone un giogo più umano. Niente campi di concentramento, meno terrore poliziesco. Gli americani hanno integrato a perfezione il codice sociale dell’occupante: come lui, la cosa che più temono è di infrangere l’etichetta e di perdere la faccia; come lui, e come Phil, non prendono nessuna decisione senza consultare l’I Ching. 

A ogni piè sospinto, il californiano medio lancia le monete e osserva affascinato il formarsi dell’esagramma che, per quanto sia frutto del caso, affonda comunque le proprie radici nella struttura del mondo. L’alternanza delle linee intere e spezzate fornisce a ciascuno una chiave personale e insieme universale per comprendere lo stato attuale delle cose: ognuno nel suo proprio, unico posto, è in relazione con tutti gli esseri viventi o che sono vissuti, con il cosmo intero. Così, per illustrare una simile interdipendenza, Phil decide di moltiplicare il numero dei protagonisti e dei punti di vista. All’inizio non sono che nomi: Frank e Juliana Frink, Nobusuke Tagomi, Robert Childan… Ma è sufficiente trascriverli, e in loro nome lanciare le monete dell’I Ching, perché quei fantasmi si animino. Senza che nemmeno si conoscano, sorgono fra loro delle connessioni. Ancora una pagina di questa prefazione e li conoscerete. Conoscerete il signor Tagomi, l’alto funzionario giapponese alla ricerca di un dono prezioso con cui onorare un visitatore in arrivo dal Reich. Conoscerete Robert Childan, che il signor Tagomi va a trovare nel suo negozio dove si vendono antichità americane: comics d’anteguerra, orologi di Topolino, dischi di Glenn Miller, tutte le carabattole di cui le élite occupanti vanno pazze, e di cui Childan garantisce l’autenticità. A torto, però, perché questi reperti si rivelano per la maggior parte dei falsi, prodotti clandestinamente nella fabbrica in cui lavora Frank Frink, l’ex marito di una certa Juliana che, all’inizio del libro, insegna judo in una palestra del Colorado.

Non voglio svelare altro del romanzo. A breve farete la conoscenza di questi personaggi, scoprirete come si incontrano, ne seguirete le imprevedibili traiettorie. Tutto ciò che succede a ognuno di loro, l’autore lo ha deciso con la collaborazione dell’I Ching. I personaggi stessi, ogni volta che devono prendere una decisione, consultano l’I Ching, il che vuol dire, evidentemente, che Dick lo ha consultato per loro, lasciando che le loro scelte eludessero il più possibile le sue. E io stesso, per aggiungere un piano all’edificio, ho scritto la mia biografia di Dick con l’assistenza dell’I Ching. Ogni volta che avevo un dubbio, che non sapevo quale direzione prendere o come affrontare un capitolo, lanciavo le tre monete. Durante i due anni che ho dedicato a quel libro, sarò stato costretto a farlo almeno un centinaio di volte, come testimonia il piccolo taccuino di cui parlavo all’inizio di questa prefazione. È una specie di giornale di bordo, tanto eloquente riguardo a quel periodo quanto lo è un diario privato. E se posso permettermi un consiglio, per avventurarvi ne L’uomo nell’alto castello, il primo libro della maturità di Dick, il primo libro assolutamente dickiano della sua carriera, dovreste armarvi a vostra volta di una copia dell’I Ching. Se ancora non lo sapete consultare, imparate a farlo. Vedrete, è facile. Arricchirà la vostra visione del mondo. Ed è un modo particolarmente creativo e dickiano non solo di leggere L’uomo nell’alto castello, ma di collaborarvi. Di penetrare nel cuore del reattore. Provateci. Prima di voltare la pagina, vi offro come viatico il primo lancio di monete che, a voler credere al mio taccuino, è stata la porta d’accesso al mio libro su Dick. È l’Esagramma Sessantuno, Chung Fu, La Verità interiore: «Al di sopra del lago soffia il vento e muove la superficie dell’acqua. Così si manifestano i visibili effetti dell’invisibile».


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L'autore

Philip K. Dick (Chicago 1928 - Sata Ana, California, 1982) è considerato uno dei più importanti scrittori postmoderni, tra i classici della letteratura contemporanea. Dal suo romanzo Gli androidi sognano pecore elettriche? (1968) è stato tratto il film Blade Runner, che ne ha fatto uno scrittore di culto. Tra le sue numerosissime opere ricordiamo L’uomo nell’alto castello (1962), Noi marziani (1964), I simulacri (1964), Le tre stigmate di Palmer Eldritch (1965), oltre al capolavoro Ubik (1969). 


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