L'Introduzione: H.P. Lovecraft - Carlo Pagetti all'opera completa - edizione 2020 Fanucci

Leggiamo insieme alcune pagine di Storia della Letteratura Horror!



Per la serie di successo "L'Introduzione" di OperaSpaziale!


I suoni e la furia (prima del silenzio)

di Carlo Pagetti



1. Dante al circo Barnum

Nel quarto canto dell’Inferno, Dante, guidato da Virgilio, scorge ‘quattro grand’ombre a noi venire’. Si tratta delle anime dei quattro sommi poeti vissuti prima dell’avvento di Cristo e confinati in eterno nel Limbo: Omero, Orazio, Ovidio, Lucano. Essi riconoscono la grandezza dell’autore della Commedia e, assieme a Virgilio, lo accettano tra di loro (IV, vv. 100-102):

E più d’onore ancora assai mi fenno,

Ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,

Sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.

Parafrasando Dante, a rispettosa distanza dagli spiriti magni da lui evocati, potremmo dire che anche H.P. Lovecraft appartenga alla schiera eletta dei grandi scrittori gotici americani, quarto ‘tra cotanto senno’, dopo Edgar Allan Poe, Nathaniel Hawthorne, Ambrose Bierce, mentre, per le posizioni successive, potremmo proporre Shirley Jackson e Stephen King.

Certo, l’inferno di Lovecraft non ha lo spessore poetico e teologico di quello di Dante, né gli si può attribuire una compiuta valenza cristiana. Del resto i gotici americani sono per loro natura sovversivi, ribelli nei confronti di certe rigidità di quella tradizione puritana che continua a dominare il panorama intellettuale del loro Paese per buona parte dell’Ottocento. E almeno Hawthorne, che ricorda di come un suo antenato fosse tra i magistrati che avevano giudicato e condannato al rogo le streghe di Salem, non rifiuta il confronto con le credenze degli avi. Uno di loro, Jonathan Edwards, nel sermone Peccatori nelle mani di un Dio adirato, pronunciato nel 1741, aveva rappresentato gli esseri umani come creaturine terrorizzate appese a un filo, trattenute solo dalla misericordia di un dio furioso per i loro peccati sull’orlo dell’abisso di zolfo, che è pronto a inghiottirli. In Hawthorne certi bruschi passaggi dal giorno alla notte, dalla pacifica e un po’ stolida quotidianità del villaggio contadino alla sarabanda infernale della foresta, in cui vengono compiuti riti demoniaci (Il giovane Goodman Brown), illuminano una condizione dell’esistenza precaria e attraversata da bagliori terrificanti, come quelli emanati dalla cometa che appare in cielo nell’episodio centrale di La lettera scarlatta. D’altra parte, il New England di Hawthorne, affondando le sue radici nel Seicento coloniale dell’America, presenta un paesaggio, diviso tra la zona costiera e la wilderness circostante, che possiamo rintracciare anche in alcune delle opere di Lovecraft, in cui il pericolo dell’invasione da dimensioni spaziotemporali sconosciute è reso ancora più tangibile dalla familiarità dei luoghi dove l’aggressione si manifesta. 

A sua volta, il laico e razionalista Poe, che va alla ricerca del terrore come una condizione interiore della vita quotidiana, non esita a immaginare scenari di morte e di vita-dopo-la-morte che aprono prospettive inquietanti su un aldilà (o, come diremmo di hpl, un altrove) che diviene all’improvviso empiricamente verificabile, pervasivo. Nei numerosi racconti in cui Lovecraft reinterpreta il modello della haunted house, la casa maledetta infestata da esseri ultraterreni, riconosciamo l’influsso di La caduta della casa degli Usher, mentre, in Poe, nell’orripilante collasso fisico di chi è stato ipnotizzato prima di morire (La verità sul caso di Mr Valdemar) scorgiamo la possibilità di una voce ultraterrena, che pure nulla rivela dell’esistenza dell’aldilà se non il fatto che l’aldilà esiste. I cosiddetti racconti marini di Poe, che prediligono il viaggio verso le estreme zone meridionali della Terra, sono un’evidente fonte di ispirazione per lo scrittore novecentesco: gli abissi oceanici sono per hpl il ricettacolo delle creature aliene, talvolta dormienti, che convivono con l’umanità inconsapevole prima dell’ineluttabile risveglio. Questo motivo è sviluppato lungo il percorso narrativo lovecraftiano, che va da Dagon, pubblicato per la prima volta nel 1919, al fortunato Il richiamo di Cthulhu (1928), e oltre. Un altro approccio di Lovecraft ai racconti di Poe è verificabile in Il pozzo e il pendolo, che trasforma un’esperienza di prigionia e di tortura in una discesa negli inferi, in cui viene esaltato il coraggio disperato del protagonista-narratore, ma in cui è segnalata anche la difficoltà crescente dello stesso atto del narrare. Ancora derivante da Poe e dal suo gusto per lo hoax, la burla pseudoscientifica, è qualche variazione parodico-grottesca, che mette in discussione l’impianto orrifico dei racconti lovecraftiani, come a suggerire in essi, aldilà della totale artificiosità, la potenzialità dei risvolti comici. Tanto per fare un esempio, quando in Aria fredda (1928) falliscono gli sforzi generosi del narratore per abbassare la temperatura nella stanza dello scienziato folle che vi ha preso dimora, ecco che davanti ai suoi occhi si materializza (si fa per dire) una replica ancora più putrescente e disgustosa del corpo del Valdemar di Poe. 

Infine, per quanto riguarda la grande tradizione ottocentesca del gotico americano, Lovecraft conosceva bene anche Ambrose Bierce, un altro frequentatore di case maledette, si tratti di capanne o baracche nelle regioni del Far West, o di dimore urbane della California e, in particolare, di San Francisco. Per Bierce l’orrore ha una matrice ben precisa, per così dire ‘storica’, derivata dalla sua esperienza giovanile nell’esercito del Nord durante la Guerra civile (1861-1865); ma già nelle short stories della raccolta Nel mezzo della vita: storie di soldati e civili (1891), le vicende di soldati che affrontano la morte sconfinano talvolta nel sovrannaturale, o nella rappresentazione di uno stato di allucinazione che è intermedio tra la vita e la morte, come accade in uno dei racconti ‘militari’ più famosi, Fatto avvenuto al ponte sull’Owl Creek, durante l’impiccagione di un sabotatore sudista. E in Chickamauga, la scena sanguinosa di una battaglia feroce, in cui il campo di battaglia è coperto di morti e di moribondi, è vissuta attraverso gli occhi innocenti di un bambino, che, inconsapevole, continua a ‘giocare alla guerra’, per scoprire alla fine che la sua stessa dimora è stata ridotta a un cumulo di macerie. In questo modo, il bambino entra in una dimensione terrorizzante dell’esistenza esattamente come certi personaggi adulti di Lovecraft, i quali, almeno in teoria, avrebbero gli strumenti della ragione per contrastare le manifestazioni dell’ignoto, ma, in realtà, finiscono annientati e distrutti, come il piccolo guerriero di Bierce. I racconti successivi di Possono accadere queste cose? (1893) sviluppano in modo ancora più esplicito situazioni inspiegabili che generano quello che in Un violento combattimento viene chiamato ‘un senso del sovrannaturale’, o, in I gemelli, ‘un orribile presentimento di morte’. A ciò si accompagna l’impossibilità di descrivere gli eventi o le proprie impressioni da parte del narratore o di arrivare alla soluzione del mistero. La mappa dell’inesplicabile tratteggiata da Bierce corre parallela a quella degli stati del West e della California e si coagula nel modo più evidente in La cosa maledetta, da cui Lovecraft trae diretta ispirazione in Il colore venuto dallo spazio, probabilmente il suo racconto fantascientifico più famoso, tanto da essere pubblicato nel 1927 su Amazing Stories, la rivista diretta da Hugo Gernsback. In La cosa maledetta, il protagonista, ormai morto, ha lasciato un diario colmo di appunti disordinati e febbricitanti in cui l’incontro con una creatura invisibile comporta la perdita di qualsiasi sua capacità di raziocinio: ‘Se queste esperienze stupefacenti sono reali, impazzirò; se sono frutto della fantasia, pazzo lo sono già.’ La riscoperta di Bierce negli anni Venti del Novecento sembra a Lovecraft la prova inconfutabile di una più avanzata sensibilità letteraria.

Quanto si è detto finora non vuole suggerire che Lovecraft fosse uno scrittore derivativo o uno zelante epigono del romance ottocentesco, così come, mutatis mutandis, Dante non si considerava certo un puro imitatore di Virgilio o degli altri poeti della classicità. Certo – se vogliamo ancora per un attimo servirci di un paragone un po’ azzardato – al pari di Dante, Lovecraft era uno studioso di vastissime conoscenze. Nel suo ampio epistolario, egli è in grado di sviscerare argomenti tra di loro diversissimi, passando dalla letteratura alla scienza, dalla religione alla politica. È un Dante di quella cultura di massa che si espande a macchia d’olio negli Stati Uniti tra le due guerre mondiali? Forse. Pensiamo a un Dante americano, privo di certezze cristiane, il quale, in un certo senso, prende come riferimento per il suo mondo fantastico-orrifico un’impresa commerciale che, soprattutto nel XIX secolo, aveva avuto un enorme successo: il circo Barnum di New York, ovvero Il più grande spettacolo del mondo, nato nel 1872 – preceduto nel 1842 dall’American Museum – in cui Phineas Taylor Barnum, il creatore, esibiva al pubblico sbalordito una donna africana di centosessantuno anni, che sarebbe stata la nutrice di George Washington, il gigante di Cardiff, le sirene delle isole Figi e altre mostruosità che sfidavano le leggi della natura. Questa è una possibile chiave di lettura della prosa di Lovecraft, che non conosce un vero magnum opus, ma si divide in tanti rivoli, in tanti torrenti che spesso si congiungono e si rafforzano, per dividersi nuovamente e per poi confluire nei romanzi e nei racconti più lunghi, in buona parte ispirati alla mitologia di Cthulhu e degli Antichi, gli Old Ones. I racconti adolescenziali di hpl, che qui si offrono in una sezione a parte, confermano del resto il gusto onnivoro delle letture di un ragazzino che immaginiamo chiuso in sé stesso e poco propenso a mescolarsi con persone della sua età: dal Coleridge della Ballata del vecchio marinaio al Frankenstein di Mary Shelley, fino al popolarissimo Stevenson di L’isola del tesoro, ritroviamo nel primo hpl tutta una tradizione fantastico-avventurosa ottocentesca. È pur vero che le simpatie del Lovecraft letterato ‘adulto’ vanno sostanzialmente al Settecento inglese, animato dalle grandi figure della satira e dell’erudizione, come Pope, Swift, il dottor Johnson con il suo ‘circolo di Begli Ingegni’, evocate in Una Reminiscenza sul Dottor Samuel Johnson, ma si tratta di una scelta per così dire politica, dal momento che hpl avrebbe preferito paradossalmente un’America uscita sconfitta dalla Guerra di indipendenza.

In ogni caso, come dimostra il trattato L’orrore sovrannaturale nella letteratura, scritto verso la metà degli anni Venti e pubblicato nel 1927 nel primo (e unico) numero della rivista The Recluse, Lovecraft aveva della narrativa gotica una conoscenza enorme, che, dalle prime manifestazioni, arrivava all’ambito americano e sconfinava nella produzione del decadentismo inglese tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Dal decadentismo fin de siècle hpl trae molti temi e un certo gusto del fantastico estetizzante più evidente fino alle opere degli anni Venti del Novecento. William Hope Hogdson, Lord Dunsany, Algernon Blackwood, Arthur Machen, M.R. James sono ‘i maestri moderni’, a cui Lovecraft dedica le ultime pagine del suo trattato, salutando l’arrivo di un’epoca in cui le forme del narrare dominanti, condizionate da un pesante realismo, dal cinismo frivolo (cynical flippancy) e da un pessimismo elegante, vengono messe in discussione sia dalla marea crescente del misticismo e del fondamentalismo anti-materialistico (verso cui Lovecraft non esprime alcuna adesione), sia ‘attraverso la stimolazione del meraviglioso e del fantastico da parte della dilatazione delle visioni e dalla rottura delle barriere che la scienza moderna ci ha fornito con la chimica infratomica, i progressi dell’astrofisica, le dottrine della relatività e le indagini sulla biologia e sul pensiero umano’. L’appello a una concezione materialistica del cosmo è uno degli aspetti che avvicina di più le teorie di Lovecraft alla fantascienza, che del resto, proprio tra le due guerre mondiali, si affermava come una forma narrativa autonoma negli Stati Uniti. In Alcune annotazioni sul romanzo interplanetario (1935) hpl non rinuncia a impartire una lezione ai confratelli dell’immaginario scientifico, criticando le loro imprecisioni e lamentando ‘il diluvio di incompetenti stupidaggini interplanetarie‘ (inept interplanetary tosh), ma ammette l’importanza di semi-classics come La guerra dei mondi di H.G. Wells e Ultimi e primi uomini di Olaf Stapledon. Del resto, nell’ultima parte della sua vita, hpl si avvicina alla fantascienza grazie anche alla nascita, avvenuta nel 1930, di Astounding Stories of Super-Science, su cui pubblica in tre puntate Alle montagne della follia e il racconto lungo L’ombra venuta dal tempo, che, uscito nel giugno 1936, avrebbe avuto l’onore di una copertina su cui spiccano creature dal corpo conico e dal volto giallo a forma di palla. Considerando che Lovecraft morì di tumore all’intestino il 15 marzo 1937 e che la direzione di Astounding Stories fu assunta nell’ottobre dello stesso anno da John W. Campbell Jr, viene da rimpiangere il mancato rapporto tra due figure non prive di asperità e di pregiudizi, ma indubbiamente geniali.

In più di un’occasione Lovecraft manifesta la sua scarsa considerazione per H.G. Wells, l’autore dei scientific romances fin de siècle ancora oggi determinanti per lo sviluppo della fantascienza, ma la sua ostilità si applica soprattutto alle idee socialiste e progressiste dell’intellettuale inglese. Invece il riconoscimento del Wells dei primi scientific romances, che aveva studiato negli anni Ottanta dell’Ottocento con l’embriologo T.H. Huxley, uno dei maggiori seguaci di Charles Darwin, fornisce una linea decisamente laica alla poetica di Lovecraft. Infatti, Lovecraft non esita a rivolgersi all’evoluzionismo e alla teoria sull’origine delle specie per abbracciare un universo di gigantesche dimensioni, in cui il passato della Terra si perde negli abissi del tempo, nel succedersi di civiltà risalenti ai primordi della vita sensibile, nelle apparizioni di creature di altri mondi, che reclamano il possesso del nostro pianeta. Insomma, la mitologia lovecraftiana del culto di Cthulhu, delle manifestazioni del dio cieco Azathoth, o di Nyarlathotep, simile a un faraone egizio, delle formule esoteriche contenute nel Necronomicon, il libro maledetto che si trova anche nella biblioteca universitaria della Miskatonic University di Arkham, si insinua nell’abisso epistemologico che divide la vecchia cronologia creazionista predarwiniana, basata su una lettura letterale della Bibbia (per la quale quattromila anni bastano e avanzano per raccontare tutta la storia dell’umanità e della Terra dal paradiso terrestre all’incarnazione di Cristo) e la nuova visione darwiniana del mondo. Quest’ultima investe e stravolge tutte le scienze naturali, dall’antropologia alla paleontologia, dalla geologia all’astronomia, fino ad abbracciare la psicologia, sebbene Lovecraft consideri illeggibili le teorizzazioni sull’inconscio di Freud e possa essere accostato più facilmente a Jung e alla sua formulazione dell’inconscio collettivo. Simile a una delle sue divinità disumane, Lovecraft presiede al suo cosmo immaginativo, tessendo una forma narrativa che egli stesso definisce con il termine weird, poiché essa non è riconducibile a nessuna classificazione precedente e ambisce a trascendere lo stesso conflitto che opponeva tra le due guerre il romanzo più tradizionale, di impianto realistico e sociologico, e quello modernista, basato sull’indagine della psiche, sulla disgregazione cronologica dell’intreccio, sulla sperimentazione linguistica. ‘Weird’ indica una scrittura che ha a che fare con il terrore, ma che comprende anche il bizzarro, il macabro e l’inatteso, quell’unexpected, che è del resto uno dei segni distintivi della letteratura fantastica.

Nei suoi appunti fatti circolare tra gli amici probabilmente dal 1933, e pubblicati la prima volta nel 1937, Annotazioni sulla stesura della narrativa weird, Lovecraft è esplicito: ‘Scelgo i racconti weird perché si adattano meglio alla mia inclinazione: uno dei miei desideri più forti e duraturi è quello di conseguire temporaneamente l’illusione di una strana sospensione o di una strana violazione delle limitazioni mortificanti di tempo, di spazio e delle leggi naturali che ci imprigionano per sempre e che vanificano la nostra curiosità riguardo agli infiniti spazi cosmici al di là del raggio della nostra vista e delle nostre analisi.’ Dobbiamo all’impegno di S.T. Joshi, il maggiore studioso lovecraftiano contemporaneo, se Notes on Writing Weird Fiction è stato raccolto assieme agli altri indispensabili saggi dello scrittore americano in Collected Essays: Literary Criticism (2004).

Va comunque aggiunto che, nella direzione del weird, Lovecraft non si muoveva da solo, ma in quanto rappresentante più anziano di un gruppo di autori che collaboravano alla rivista mensile Weird Tales, pubblicata dal marzo 1923 e rinnovata dal novembre 1924 sotto la direzione di Farnsworth Wright, con cui Lovecraft avrebbe avuto un rapporto non facile, ma che gli avrebbe pubblicato nel 1928 Il richiamo di Cthulhu, il primo testo di quel ciclo in cui Lovecraft dà il meglio della sua visione allucinata di un mondo alternativo, in grado di trasformare la percezione quotidiana dell’esistenza. In seguito, Wright avrebbe rifiutato Alle montagne della follia, il romanzo che è un po’ la summa dell’immaginario mitologico lovecraftiano, probabilmente a causa della lunghezza del testo, o forse per la sua minuziosità documentaria, su cui intendo soffermarmi più avanti. Il periodo d’oro della rivista si colloca a cavallo tra gli anni Venti e gli anni Trenta del Novecento, quando su di essa scrivono sia H.P. Lovecraft sia Robert E. Howard, l’autore dei racconti di Conan il barbaro. Con la morte di Howard nel 1936 e di Lovecraft nel 1937, Weird Tales perde i suoi collaboratori più dotati.

Dopo decenni di silenzio critico, anche Weird Tales è stata recuperata a uno studio più attento da parte della critica. La rivista non manca, del resto, di aspetti contraddittori e sorprendenti, che ne fanno una summa di percorsi narrativi goticheggianti a tratti sovversivi, come è nel caso delle numerose copertine illustrate da Margaret Brundage, una delle poche figure di artiste presenti in un settore culturale senza ombra di dubbio misogino (Lovecraft docet), per di più decisamente osé nella esplicita esibizione di nudi femminili. The Unique Legacy of Weird Tales. The Evolution of Modern Fantasy and Horror, a cura di Justin Everett e Jeffrey H. Shanks, pubblicato nel 2015, è l’esempio migliore di una critica accademica che prende molto sul serio le problematiche e i linguaggi di Weird Tales. Infatti, se gli studiosi che hanno partecipato a The Unique Legacy ribadiscono il radicale rifiuto del modernismo da parte di hpl, che considerava La terra desolata di T.S. Eliot un caos informe di citazioni e di ritmi poetici soffocati dall’indisciplina del verso libero, essi sottolineano che in Lovecraft e in alcuni suoi colleghi vi è anche la volontà di operare una netta distinzione tra la propria visione letteraria, immersa in modo rigoroso nella tradizione gotica sette-ottocentesca, e le fantasie disordinate e rabberciate di altri pulp magazine, le riviste stampate su carta riciclata che caratterizzano la cultura popolare americana tra le due guerre. Il rifiuto del didascalismo, di un realismo di maniera, di un banale sentimentalismo, va di pari passo con un atteggiamento di aristocratico distacco nei confronti della democrazia delle masse arruolate nel new deal rooseveltiano alla fine degli anni Venti del Novecento. Paradossalmente, come il modernismo, la narrativa weird svaluta senza esitazioni il retaggio ottocentesco dei romantici e dei vittoriani, salvando solo la componente del romance gotico (che ai modernisti non interessava). Come per i modernisti, il passato è fatto di oscuri frammenti da ricucire, e il ricorso alla Storia provvidenziale – sia essa di matrice religiosa oppure evoluzionistica e borghese – non funziona più. Uno degli autori più apprezzati dai lettori di Weird Tales, Robert E. Howard, si rifugia nel medioevo bellicoso e stravagante del sottogenere sword and sorcery, poi raffinato nella heroic fantasy tolkieniana. Ma l’ispirazione weird di Lovecraft va oltre, intravede qualcosa nell’ombra che sembra avvolgere l’umanità, qualcosa di inconoscibile e ineffabile, per nulla rassicurante, che presuppone la ricerca di un linguaggio, capace di mettere assieme i tasselli di una conoscenza terrificante e distruttiva con quell’operazione di piecing out, piecing together of dissociated knowledge, di cui parla Francis Wayland Thurston nelle carte lasciate dopo la sua morte, che costituiscono la narrazione postuma di Il richiamo di Cthulhu. 



2. Autobiografia di un estraneo, biografia dell’America

La biografia di Lovecraft è stata più volte ripercorsa in dettaglio. In Italia, oltre alla monografia nella collana Il Castoro di La Nuova Italia, scritta da Gianfranco De Turris e Sebastiano Fusco nel 1979, è disponibile l’opera del romanziere francese Michel Houellebecq, H.P. Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita (2005), risalente all’inizio degli anni Novanta. Si tratta di pregevoli testi pionieristici che non tengono conto delle conoscenze più recenti. Per esempio, Houellebecq afferma che Lovecraft ‘non era un teorico’, ma viene smentito dalla già citata raccolta di saggi critici lovecraftiani curata da S.T. Joshi. L. Sprague de Camp, autore di Lovecraft. A Biography (1975), una fonte per tutte le ricostruzioni successive, sostiene che l’autore americano scrisse durante la sua non lunga esistenza (morì a 47 anni) qualcosa come centomila lettere. S.T. Joshi concorda e calcola in ventimila, circa un quinto, le lettere che sono state conservate. Un frenetico compilatore di messaggi da spedire per posta, hpl ci ricorda un altro maniacale epistolografo americano, Philip K. Dick, la cui morte, avvenuta nel 1982, coincide più o meno con l’avvento di internet e dei primi personal computer, che avrebbero posto fine alla lunga epoca delle corrispondenze private conservate nei luoghi di studio.

In Italia una prima molto parziale raccolta epistolare è stata curata da Giuseppe Lippi in Lettere dall’altrove (1993). A Lippi, recentemente scomparso, si deve molto del merito della fortuna editoriale di Lovecraft, grazie anche all’ospitalità degli Oscar Mondadori. Per quanto riguarda i materiali epistolari, una cinquantina di lettere sono state pubblicate più recentemente, nel 2007, in L’orrore della realtà. La visione del mondo rinnovatore della narrativa fantastica. Lettere 1915-1937, a cura di Gianfranco De Turris e Sebastiano Fusco. L’enorme quantità di missive conferma l’esistenza appartata di Lovecraft, la sua volontà di comunicare soprattutto con la cerchia degli amici e dei discepoli, tra cui annoveriamo Robert Bloch, Clark Ashton Smith e Robert E. Howard. Vi è anche una corrispondenza che riguarda i contatti con scrittori alle prime armi, con cui hpl collaborava anche per motivi pecuniari. Tra questi ultimi c’è qualche presenza femminile, come quella di Hazel Heald, a parziale smentita della misoginia di hpl, il quale era cresciuto in un ambiente prettamente femminile, composto dalla madre e da due zie, dopo la precoce scomparsa del padre, da tempo mentalmente instabile e deceduto nel 1898, quando Howard aveva otto anni. Tra le ipotesi sulla lunga malattia del padre c’è anche quella che egli soffrisse di sifilide, e questo fattore potrebbe aver causato in Lovecraft una paura della sessualità, che, con molte probabilità, dovette incidere anche sulla sua breve vita coniugale. 

In ogni caso, lettore onnivoro e fin da giovane portato a mettere per iscritto le proprie incursioni nel campo della letteratura, Lovecraft non è certamente uomo d’azione e anzi ricorda, forse con una certa esagerazione, il protagonista di Il monarca dei sogni (1886), un racconto di Thomas Wentworth Higginson, grande estimatore della poesia di Emily Dickinson, di cui fu uno dei rarissimi amici. In Il monarca dei sogni, Francis Ayrault, un intellettuale del Rhode Island (lo stesso Stato di hpl), immerso nello studio dell’attività onirica, precipita in una visione popolata da creature che riproducono tutte la sua fisionomia e non si risveglia in tempo per unirsi all’esercito nordista e combattere ‘dalla parte giusta’. La differenza rispetto alla short story di Higginson è che, se Lovecraft era sprofondato nei suoi sogni, o piuttosto nelle sue fantasie, non era tanto la sua immagine in cui egli si rispecchiava, quanto nella pullulante congerie di esseri terrificanti provenienti da altre dimensioni temporali. Che poi queste forme dell’alterità avessero nella loro mostruosità qualcosa di simile a lui, fossero intorno a lui, fossero lui, si può cogliere in L’estraneo (1926), dove la coscienza della diversità contagia lentamente il narratore, dopo il fallimento dei suoi tentativi di contatto con altri esseri, che lo rifiutano e fuggono davanti a lui. In realtà, come succede a tutti gli scrittori, è proprio all’interno delle sue opere narrative che Lovecraft inserisce una proiezione – sempre parziale – del proprio io, dando di sé interpretazioni differenti e di solito elusive. Così, nelle opere in cui compare il personaggio di Randolph Carter, noi ci troviamo di fronte a un Lovecraft malinconico come un artista del decadentismo, ansioso di rompere i vincoli che lo legano a una esperienza quotidiana vuota e deludente. In La chiave d’argento (1929), Randolph, un ricco possidente che gira in automobile nella campagna attorno ad Arkham, si impossessa della chiave d’argento che gli permetterà di visitare la terra degli avi, entrando in un’altra dimensione spaziotemporale. Ma c’è anche il Lovecraft che trasferisce la sua cultura sterminata e il suo potere immaginativo nel più lucido dei suoi testimoni, William Dyer, il narratore di Alle montagne della follia, geologo e professore universitario della Miskatonic University di Arkham – un ruolo che forse Lovecraft avrebbe ricoperto volentieri presso l’istituzione a cui si era ispirato, la Brown University di Providence, se fosse riuscito ad approfondire i suoi studi in modo disciplinato – per poi trasformarlo man mano che la narrazione sprofonda negli abissi del tempo e dello spazio in una replica del Gordon Pym di E.A. Poe, in un gioco di prospettive che sanciscono la destabilizzazione dell’identità, ma anche il ricorso alla letteratura in opposizione alla disintegrazione totale dell’io. In questo senso Lovecraft è molto più vicino alla visione modernista di La terra desolata di T.S. Eliot di quanto egli fosse disposto ad ammettere. Nello scrittore di Providence cogliamo una catena di ambivalenze che, in fin dei conti, costituiscono il suo punto di forza, e rafforzano l’ambiguità di una lotta che individua un diverso da contrastare, ma con cui esiste una inconfessabile e spaventosa affinità. 

In ogni caso, un aspetto ancora da approfondire nella narrativa di hpl è il ruolo dei suoi alter ego fittizi, che accompagnano i lettori dall’universo dell’esperienza quotidiana a quello dell’allucinazione e dell’incubo terrificante. Così, in Lo sconosciuto (1926), seguiamo la passeggiata del narratore, un flâneur il quale, sulle tracce di Poe (L’uomo nella folla) e di Baudelaire, si inoltra per i vicoli di una New York che gli sembra, a differenza di Londra e di Parigi, priva di legami con il suo passato, fino a incontrare un misterioso personaggio dall’inglese forbito e arcaizzante. Costui, ‘lo sconosciuto’, che lo invita nella sua dimora, è forse uno stregone che ha appreso in Europa le arti della negromanzia. La sua comparsa fa precipitare l’asse della narrazione verso una soluzione orrifica e raccapricciante – come se l’io narrante fosse hpl nella sua diuturna esistenza newyorkese, e lo sconosciuto hpl trasformato nello scrittore notturno di racconti dell’orrore. L’unico, sia pure temporaneo, recupero della sanità viene suggerito alla fine del racconto, quando l’io narrante abbandona New York per tornare ai nativi sentieri rurali del New England, esorcizzando, almeno nelle intenzioni, il lato oscuro, tenebroso della sua identità.

Il periodo passato da Lovecraft a New York, dopo la morte della madre avvenuta nel 1919 e l’incontro con l’ebrea ucraina Sonia Greene, reduce da un matrimonio disastroso, di sette anni più anziana di hpl, costituisce un rito di iniziazione incompiuto, ma comunque fruttuoso per lo scrittore. Sonia è un esempio di donna indipendente, fornita di un ottimo stipendio come dirigente di un grande magazzino di New York. I due si sposano nel 1924, si stabiliscono a Brooklyn nell’appartamento di lei, ma il matrimonio entra presto in crisi, anche perché Lovecraft non è in grado di procurarsi un lavoro. Sonia lo lascia per trasferirsi a Cleveland e, nel 1926, hpl torna a Providence dalle zie, non senza aver assorbito una visione fondamentalmente razzista della popolazione newyorkese, composta da immigrati europei, asiatici, neri, che egli disprezza, per rifugiarsi nel vagheggiamento di un’origine anglosassone – quella dei fondatori dell’America coloniale – che probabilmente sarebbe sembrata limitativa perfino ai teorici nazisti della purezza della razza. Non sono d’accordo con la rivalutazione di Lovecraft in chiave progressista tentata da alcuni studiosi, ma non credo neppure che il recluso di Providence possa essere arruolato tra i seguaci del Nuovo Ordine nazifascista, sia per il suo esasperato individualismo, sia anche perché una lettura critica delle sue opere ci consente di esplorare quegli spazi di contraddizione che un autentico artista rivela, annullando il carattere monolitico delle ideologie politiche totalitarie. Come nel caso di altri scrittori reazionari, è la sua opera che salva hpl ai nostri occhi, permettendoci sia di cogliere attraverso di essa alcune caratteristiche della sua epoca, sia di rivalutare come fonte di ricchezza le ambiguità che filtrano dalla sua scrittura creativa, in cui praticamente non compaiono mai esaltanti figure di eroi ‘ariani’ o convinte celebrazioni di un’utopia bianca, fondata sulla schiavizzazione dei popoli inferiori. 

Una parziale eccezione a quanto si è appena sottolineato è data dalla figura del ‘coraggioso norvegese’, l’ufficiale di bordo Johansen, che, in Il richiamo di Cthulhu, lancia il suo battello contro la ‘verde immensità gelatinosa’, ‘la Cosa titanica dalle stelle’, simile a Polifemo che inveisce contro la nave di Ulisse in fuga. È pur vero che anche Johansen è destinato a soccombere in circostanze apparentemente banali, dopo aver lasciato alla moglie un manoscritto che verrà incorporato nel documento messo assieme dal narratore del testo primario del ciclo di Cthulhu, pubblicato su Weird Tales nel 1928. A ogni modo, se gli intellettuali nazisti potevano costruire una loro distorta visione evoluzionistica basata sulla sopravvivenza dei più adatti o sulla politica eugenetica, in Lovecraft gli esseri umani si scontrano inevitabilmente con l’immane e disumana vastità di un universo espressione del caos primigenio, in cui il dio cieco Azathoth, fatto d’una materia degenerata e proliferante, o Cthulhu, l’entità viscida e putrescente che regna sulla città sottomarina di R’lyeh, invadono gli spazi della ragione e li reclamano come loro proprietà. Quella di Lovecraft è – come è stato detto – una forma di materialismo cosmico che non consente alcun appello idealistico, nessuna palingenesi, magari aberrante (come era nell’ideologia nazista), della civiltà. Semmai, va ricordato l’incontro di hpl, avvenuto a New York, con Nikolaj Rerich, un personaggio di sterminata cultura, di origine russa e baltica, un filosofo aderente alla teosofia, archeologo e pittore di paesaggi misticheggianti influenzati dal suo soggiorno sulle pendici dell’Himalaya. Portatore di una visione pacifista a livello universale, in origine ostile al regime sovietico tanto da risiedere negli Stati Uniti nella prima parte degli anni Venti, in seguito convinto che dalla Russia arrivasse un messaggio di pace che gli avevano comunicato i Mahatma, i maestri spirituali dell’India buddista, Rerich potrebbe essere stato – sia pure come una sorta di alter ego dotato di quei poteri di mobilità e di slanci verso il prossimo del tutto carenti in hpl – l’unica autentica guida intellettuale di Lovecraft. Del resto, in Alle montagne della follia, il professor Dyer, l’alter ego di Lovecraft, fa esplicito riferimento ai quadri di Rerich per descrivere i paesaggi alieni dell’Antartide. Intanto, l’esperienza di New York comincia a insinuarsi nella narrativa lovecraftiana, come avviene nel racconto lungo Orrore a Red Hook (1927), ambientato nei paraggi dell’abitazione di Howard e di Sonia, dove risiede ‘l’abisso poliglotta del mondo sotterraneo di New York’, espressione dei ‘linguaggi blasfemi di un centinaio di dialetti’, sovrappopolato da siriani, spagnoli, italiani e negro elements, dediti a rituali orripilanti. L’accenno iniziale a una dimensione urbana che lo stesso hpl chiama ‘dickensiana’ viene abbandonato in nome d’una rappresentazione raccapricciante e disumana della metropoli. New York accoglie in sé anche la presenza del mare, e sul suo fronte del porto o nei suoi dintorni si annidano i disgustosi meticci, half- caste, mixed-blood, mongrels, ovvero gli adepti di Cthulhu, che ricompaiono, nudi, nei riti orgiastici tra le paludi della Louisiana in Il richiamo di Cthulhu. È evidente come Lovecraft non rinvenisse a New York alcuna traccia di una comunità omogenea. Peraltro lo stesso senso di separazione caratterizza anche la sua esistenza a Providence: egli ha assoluto bisogno del filtro dei libri, della pagina bianca da riempire maniacalmente, che si tratti di narrazioni weird o di lunghe epistole agli amici (lontani), e persegue un modus vivendi che sterilizzi ogni forma di contagio emanata dagli esseri umani. Eppure, a ben vedere, le creature mitologiche di altri mondi o del più remoto passato, gli Old Ones, i mostri che si ibridano con le donne umane sulla costa o nei villaggi rurali semiabbandonati del New England, affermano il loro potere proprio laddove scompare lo spazio dell’alleanza tra gli esseri umani, il covenant che, nella Bibbia, univa a Dio il popolo eletto, quel popolo che i puritani, pur irrisi dallo scrittore per la loro pochezza letteraria, avevano cercato di resuscitare dopo il loro arrivo dal Vecchio mondo. La sconfitta appare dunque inevitabile e frutto di un cupio dissolvi che il creatore dei miti di Cthulhu cerca di esorcizzare proiettandolo nei suoi racconti, consapevole di non poter sfuggire alla sua solitudine, eppure fino alla fine pronto a rendere testimonianza di una agonia che non è un semplice fatto personale, ma va narrata a chiunque voglia tentare un’estrema difesa contro le forze del caos. 

L’America tra le due guerre mondiali, che si riflette come in uno specchio oscuro nella narrativa lovecraftiana, è comunque un’immagine in negativo e perciò non cambia in modo significativo a seconda che pensiamo al periodo più apparentemente spensierato degli anni Venti o a quello successivo alla Grande depressione del 1929. Gli Stati Uniti sono un Paese che ha conosciuto, inviando i suoi soldati in Europa, gli orrori della Grande guerra, con la sua carneficina al cui cospetto impallidisce perfino il ricordo della Guerra civile, combattuta mezzo secolo prima. In Lovecraft non mancano i riferimenti diretti al conflitto europeo, per esempio in Herbert West: il rianimatore, un’opera giovanile apparsa a puntate sulla rivista Home Brew nel 1922, che è un omaggio truculento al Frankenstein di Mary Shelley con i suoi corpi fatti a pezzi e rimontati, gli atti di cannibalismo, i morti della Prima guerra mondiale, i quali, simili a zombie, trovano un’ultima scintilla di vita per vendicarsi del folle protagonista, il chirurgo di Boston Herbert West, ‘una macchina intellettuale fredda come il ghiaccio’, che aveva combattuto nelle Fiandre appunto per procurarsi i cadaveri freschi da utilizzare nei suoi esperimenti. 

Finita la guerra, l’America si riscopre un Paese di mostri inquietanti e di scenografie notturne, mano a mano che i problemi interni – ad esempio la necessità di bloccare i flussi migratori – prendono il posto delle celebrazioni della vittoria. Come ho avuto modo di scrivere altrove, se talvolta l’ostilità verso gli immigrati di Lovecraft ricorda le farneticazioni del Ku-Klux Klan, un’organizzazione che opera nella legalità dopo la fine del conflitto, e appare perciò ancora più pervasiva e minacciosa, come ha dimostrato Linda Gordon in The Second Coming of the KKK (2017), lo scrittore di Providence tuttavia non condivideva di certo il ricorso alle radici cristiane degli Stati Uniti e al creazionismo antidarwiniano praticato dai suoi seguaci. Semmai, potevano colpirlo l’aspetto pagliaccesco, circense, delle parate degli adepti in costume, con le loro gerarchie composte da King Kleagles, Klaliffs, Grand Goblins e altri titoli strampalati, a conferma dell’ambivalenza che è al centro del discorso narrativo lovecraftiano, in cui i mostri sono i nemici degli esseri umani, ma sono anche gli esseri umani. Tra gli uni e gli altri non è possibile tracciare alcuna linea di demarcazione, come si rende conto il protagonista-narratore di uno dei maggiori racconti lunghi di hpl, L’ombra su Innsmouth (1936), nella sua visita notturna lungo la costa del New England, quando assiste alla sfilata delle creature anfibie provenienti dall’Atlantico e ne riconosce l'’affinità fisica con gli abitanti di Innsmouth. Sotto la luce malata della luna, il narratore lovecraftiano vede, o piuttosto intravede, percepisce non solo con la vista, ma anche con l’udito e con l’olfatto, un’oscena processione di mostri. E il racconto non finisce qui, dal momento che, scavando nella genealogia della sua famiglia, egli capisce di far parte del mondo alieno, di sentire il richiamo degli abissi marini. Il suo stesso linguaggio è stato contagiato da quello delle creature immonde il cui sangue gli scorre nelle vene: ‘Splendori prodigiosi e sconosciuti mi attendono laggiù, e presto li andrò a cercare. Iä-R’lyeh! Cthulhu fhtgn! Iä! Iä!’



3. Oltre le montagne della follia

Tra i romanzieri della tradizione gotico-fantastica, a parere di chi scrive, e al di là dei nomi canonici di cui ci siamo già occupati (Poe, Hawthorne, Bierce), va segnalato Arthur Machen, soprattutto in Il grande dio Pan (1894), anche nella struttura non lontana da quella impiegata da Lovecraft in alcuni racconti lunghi, che si basa su testimonianze diverse e su alcuni veloci passaggi temporali. In Il grande dio Pan, il rinvio alla tradizione mitologica, spogliato da qualsiasi richiamo nostalgico e puerile (si ricorderà che nel Peter Pan di J.M. Barrie, di poco successivo, la brutalità del satiro si addolcisce nella figura di un bambino perduto), consente allo scrittore decadente di restituire ai lettori l’immagine indiretta di una creatura bestiale, sessualmente predatoria, nello stesso tempo utilizzando una sorta di viaggio nel tempo che rinvia all’immaginario scientifico di H.G. Wells. In Machen mito e scienza finiscono per interfacciarsi, ottenendo risultati terrificanti. In Il grande dio Pan la progenie del dio si materializza, infatti, in una spregiudicata femme fatale vorace e seduttiva, dissolta, nel momento della morte, in una sostanza putrescente e gelatinosa. È da notare come nelle opere di hpl manchi il motivo della donna vampiro e non compaiano né eroine né tantomeno compagne di eroi. Se in Lovecraft la donna può essere generatrice biologica di mostri o di semimostri, secondo una rivisitazione beffarda della mitologia greca, pullulante di semidei prodotti dall’unione delle divinità con donne umane, il confronto con l’essere innominabile e di solito asessuato spetta esclusivamente al protagonista maschile. 

Non a caso solo figure maschili appaiono in Alle montagne della follia, il maggior tentativo lovecraftiano di tradurre in un romanzo corposo la mitologia degli Old Ones, già apparsa in racconti lunghi e brevi. Alle montagne, la summa dell’universo narrativo di Lovecraft, viene scritto nel 1931 ed è pubblicato in tre puntate sulla rivista di fantascienza Astounding Stories solo nel 1936. Tra l’altro, mentre è giusto sottolineare la discendenza letteraria da Poe, al cui Gordon Pym Lovecraft si aggrappa nelle ultime pagine del romanzo, come ha ribadito Francesco Marroni in un recente saggio (2020), è opportuno ricordare anche gli aspetti più attuali del testo, che si avvale della popolarità dei viaggi antartici presso il grande pubblico. Giusto tra il 1928 e il 1930 il pilota americano Rychard E. Byrd aveva sorvolato l’Antartide, suscitando in patria l’entusiasmo già riservato alla trasvolata atlantica compiuta da Lindbergh nel 1927. Una ventina d’anni prima l’opinione pubblica mondiale aveva seguito, come se fosse una gara sportiva, la competizione tra Amundsen e Scott, lanciati alla conquista del polo Sud, e si era commossa per la sorte tragica di Robert Falcon Scott e dei suoi quattro compagni, preceduti di qualche settimana dai norvegesi di Amundsen e scomparsi durante il viaggio di ritorno, alla fine del marzo 1912. Il diario di Scott, ritrovato nella tenda dove l’esploratore britannico era morto congelato assieme agli ultimi due compagni, è destinato a diventare non solo una fulgida testimonianza di eroismo, ma anche la prova che esistono ancora mondi sconosciuti da affrontare con spirito scientifico. Le ricerche sui fossili e sulla geologia dell’Antartide, infatti, vengono offerte come principale motivazione per la spedizione. In più, con una tecnica narrativa che dovette piacere a hpl, il diario di Scott contiene al suo interno la documentazione di un altro viaggio, quello compiuto nel luglio 1911, mentre imperversava la bufera polare, dal giovane Apsley Cherry-Garrard assieme a due compagni verso le pendici del monte Terror, vicino a capo Crozier, con il proposito di avvicinarsi a una colonia di pinguini imperatori e di raccogliere alcune loro uova (in tutto furono tre) da sottoporre a esame, per dimostrare il processo evoluzionistico dai rettili della preistoria agli uccelli. Cherry-Garrard avrebbe poi raccontato l’impresa in The Worst Journey in the World, un libro di successo pubblicato nel 1922 come centesimo numero della collana dei Penguin Books.

In bilico tra suggestioni letterarie e propositi documentari, Alle montagne della follia è un testo diviso in varie sezioni, che ha come punto di partenza il resoconto apparentemente spensierato, e geograficamente accurato, di una missione antartica guidata da William Dyer, l’autorevole geologo della Miskatonic University, che ritroveremo a capo di un’altra spedizione nell’altrettanto aliena Australia di L’ombra venuta dal tempo (1936). Il mondo polare appare un perfetto, sterminato, laboratorio, dove una comunità rigorosamente maschile (come, del resto, quella che componeva la spedizione di Scott) può abbandonarsi al gioco delle ricognizioni e del reperimento di preziosi campioni. Tuttavia, dalla base antartica parte un ulteriore viaggio che si conclude in modo misterioso e che costituisce solo una tappa intermedia, prima dell’allestimento di un’ulteriore spedizione nella colossale città preistorica, che si rivela il centro di una grandiosa civiltà. Vista dall’alto attraverso la prospettiva aerea, esplorata lungo la sua superficie diroccata, nei labirinti di grandiosi edifici, all’imboccatura di tunnel che sprofondano nel sottosuolo, e allo stesso tempo ricostruita dai due esploratori attraverso l’esame di sculture, strutture architettoniche e geroglifici che ne adornano le pareti, la città degli Old Ones rivela una storia antecedente e parallela a quella dell’umanità, dichiara una Genesi il cui racconto è registrato in una Bibbia aliena e in parte recuperato nel libro maledetto del Necronomicon. Si tratta di una lunga vicenda mitica che si conclude con la distruzione degli Antichi (e forse preannuncia quella della civiltà umana) per mano non degli esseri simili a giganteschi polipi, dal volto a forma di stella, che l’avevano eretta, ma dei loro ancora più feroci e disumani servitori, gli Shoggoth: ‘Protoplasmi informi in grado di imitare e replicare qualunque forma, organo e processo corporeo, viscosi aggregati di cellule gorgoglianti, sferoidi elastici del diametro di quasi cinque metri e dall’infinita plasticità e duttilità, schiavi di suggestioni ipnotiche, costruttori di città, sempre più ostili, sempre più intelligenti, sempre più capaci di vivere sia in acqua sia in superficie, sempre più fluidi nell’imitare ogni prerogativa delle creature viventi! Gran dio! Quale follia aveva spinto i blasfemi Antichi dapprima a modellare quegli abomini, e quindi a servirsene?’ (Alle montagne della follia, cap. XI). Da notare il preciso riferimento ai bassorilievi che permettono agli esploratori antartici di visualizzare gli abitanti della città. Di sculture mostruose, come la raffinata statuetta di Cthulhu in Il richiamo di Cthulhu, e di edifici ciclopici, la cui architettura sfida le regole della geometria euclidea, è colma la narrativa lovecraftiana, a dimostrazione che l’orrifico ha comunque una consistenza e una materialità pari almeno alla ricchezza dei richiami letterari e mitologici dissotterrati per riportarlo alla luce. Del resto, anche la pittura e la musica contribuiscono, nel corso dell’opera di hpl, a dare una risonanza estetica all’universo weird. Lo sforzo più rilevante della scrittura lovecraftiana nell’opera di recupero dell’alterità trova espressione nella carica iperbolica, nell’enfatizzazione dei dettagli, nel gigantismo delle descrizioni, nell’accumulo degli aggettivi che insistono su quanto non è possibile rendere attraverso il linguaggio umano: incredibile, indicibile, indescrivibile, innominabile, incomprensibile... E si può procedere oltre, arrivare ai puntini di sospensione, alla registrazione di suoni strani, zufolanti, bestiali, eppure non privi di un loro arcano significato... Poi, come succede verso la conclusione di Colui che sussurrava nel buio, cala il silenzio. La strategia narrativa di Lovecraft è implacabile fino a stordire il lettore, ma non manca di una sua sottigliezza. Si pensi, ad esempio, nel brano appena citato, tratto da Alle montagne della follia, all’iterazione di quel ‘sempre più’, ancora più efficace in inglese: ’more and more... more and more... more and more...’ Eppure, nella sarabanda strabordante e allucinata di materia aliena, qualche frammento di umanità rimane, se è vero che William Dyer non mancherà di esprimere parole di pietà non solo nei confronti dei compagni massacrati dagli Shoggoth, ma perfino a proposito degli Antichi, ‘poveri diavoli’ anche loro, non malvagi come i loro servitori ribelli, anzi, straordinari scienziati e costruttori, portatori di una conoscenza cosmica, travolti da un destino di fronte cui sono impotenti, come accade perfino alle divinità greche sottomesse al volere del fato. Almeno provvisoriamente, in Alle montagne della follia, il racconto si conclude con la fuga e la salvezza dei due esploratori antartici che si sono inoltrati nella città aliena, mentre alle loro spalle si intravede la colossale figura di un inseguitore che, grazie a un’efficace immagine di Dyer, si sposta dal territorio remoto e raccapricciante del mito antartico al segno di una modernità tecnologica ugualmente sconvolgente, allorché il muso luminoso di un treno sotterraneo irrompe nella metropolitana di New York.

In fin dei conti, la dimensione del grottesco, che può facilmente scadere nel ridicolo involontario e nel buffonesco (come sostengono i detrattori di Lovecraft, a cominciare dal prestigioso critico Edmund Wilson nel 1945 sul New Yorker), non esclude il recupero di una visione sempre terrificante, ma meno nichilista, poiché i mostri più rivoltanti entrano a far parte della sfera dilatata, quasi irriconoscibile, dell’umanità. Nihil humani a me alienum puto, malgrado tutto. In L’orrore di Dunwich (1929), uno dei racconti lunghi lovecraftiani più efficaci anche per la concretezza dei dettagli topografici, il gruppo ben affiatato dei tre studiosi, che si sono recati nel villaggio rurale di Dunwich a indagare su alcuni eventi spaventosi e inesplicabili, offre ai contadini smarriti la garanzia di una fratellanza che non retrocede di fronte al pericolo. Tuttavia, il vero centro della narrazione è costituito dal racconto della vita di Wilbur Whateley, il cui aspetto animalesco lo rende simile a uno scimmione puzzolente dai piedi caprini, condannato a occuparsi della creatura ancora più bestiale che vive accanto a lui, pateticamente impegnato a procurarsi il Necronomicon, per estrarre da lì le formule magiche che dovrebbero portare all’arrivo di Yog-Sothoth, ‘il guardiano della soglia’, il progenitore dei mostri. Finirà sbranato da un cane da guardia, evidentemente ancora più feroce di lui. Non è un caso che lo studioso di Arkham, che si oppone ai tentativi di Wilbur, si affidi, per dare un senso a ciò che appare inspiegabile, alla menzione di Il grande dio Pan di Machen. Lasciamo seguire ai lettori lo sviluppo della vicenda, di cui cogliamo solo la conclusione, con l’annientamento di un essere more and more mostruoso, in uno scenario che è una sorta di parodia della passione e della morte di Cristo. Pure al più abominevole dei figli umani di Yog-Sothoth vada un minuscolo residuo della nostra pietà.

Torniamo per l’ultima volta all’America di hpl, a metà strada tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, e ai suoi scenari gotici, che non erano solo quelli ospitati nelle pagine di Weird Tales. Il 7 ottobre 1929 esce il quarto romanzo di uno scrittore del Sud degli Stati Uniti, William Faulkner. Il titolo del romanzo, Il suono e la furia (The Sound and the Fury), è una esplicita citazione dal Macbeth di Shakespeare, un’opera in cui riverbera una dimensione apocalittica, fatta di fragori, voci notturne, apparizioni spaventose, fenomeni innaturali, scatenata dall’assassinio del buon re Duncan da parte di Macbeth, il più valoroso dei suoi sudditi, a cui le streghe hanno profetizzato la corona. Nel monologo che Macbeth pronuncia dopo aver saputo della morte della moglie, egli paragona la vita a una storia ‘raccontata da un idiota, piena di suono e di furia/ Che non significa nulla’ (V. 5). Infatti, in The Sound and the Fury il punto di vista che apre e condiziona la narrazione è attribuito a un povero idiota, Benjamin ‘Benji’ Compson, che vive il suo rapporto con i due fratelli e con la sorella in termini puramente emotivi, attraverso il linguaggio sbriciolato e confuso che contraddistingue la sua identità infantile, e che Faulkner rende attraverso lo stream of consciousness, il flusso di coscienza joyciano. Nel mondo di Faulkner l’orrore dell’esistenza risiede nei meccanismi di una mente offuscata, non ha nulla a che fare con la minaccia delle entità cosmiche. Allo stesso modo, la decadenza morale di una famiglia sudista, contaminata da fantasie morbose, da tendenze suicide, e spaventata dai comportamenti di un povero ‘mostro’ che non può mai essere lasciato libero di muoversi, non deriva certo dalla scoperta di un’origine atavica, preumana sepolta nel sottosuolo o negli abissi marini. Da un certo punto di vista siamo al polo opposto dalla scrittura orrifica di Lovecraft, un arcaico gentiluomo del New England, il quale, paradossalmente, con il suo terrore per la contaminazione razziale, avrebbe potuto trovare cittadinanza nel Sud americano più retrivo. Eppure, la visione del mondo dei due scrittori americani sembra non del tutto dissimile. Siamo sì ai due estremi opposti del linguaggio narrativo, ma il weird allucinato e ridondante di Lovecraft, portando alle estreme conseguenze gli incubi della cultura di massa, partecipa a quella disgregazione di una forma narrativa borghese, basata sulle false sicurezze della vita quotidiana, sul piccolo cabotaggio psicologico e sentimentale, che Faulkner conduce adattando gli strumenti della scrittura modernista alla densa materia della sua esperienza del Sud. Alla fine, non si sa se è più inquietante la serenità demente di Benji, sottoposto a castrazione per aver forse cercato di violentare una ragazza, o l’angoscia di William Dyer, il quale capisce che oltre la città degli Antichi esiste un paesaggio ancora più malvagio e feroce, more and more. Di sicuro, diversa è stata la fortuna dei due autori americani: mentre nel 1945 Lovecraft, ormai morto da otto anni, veniva sbeffeggiato dalla penna tagliente di Edmund Wilson, nel 1949 Faulkner otteneva il premio Nobel per la letteratura. 

Oggi rendiamo onore anche alla narrativa di hpl, l’aristocratico stravagante, cittadino di un Paese che aveva abolito i titoli nobiliari. La sua opera prefigura un’epoca in cui i suoni più disumani e le situazioni più terrificanti si concludono nel silenzio totale della morte. hpl scompare nel 1937. Il fato o una delle entità cosmiche da lui create gli avrebbero risparmiato di assistere al trionfo del razzismo ‘scientifico’, alla persecuzione e allo sterminio della Shoah, allorché i mostri più pericolosi di tutti, quelli che avevano assunto perfette sembianze umane, avrebbero organizzato lo spettacolo spaventoso della ‘soluzione finale’, l’incubo dei viaggi nei carri merci, l’arrivo nel luogo della tortura, la scena della morte orribile e indescrivibile nelle camere a gas, quella morte che nessuno ha potuto veramente raccontare, perché, come ha scritto Primo Levi, solo i morti avrebbero potuto farlo, e i morti non parlano. 

In Lovecraft l’ultimo viaggio dell’umanità non è stato ancora compiuto, anche se le montagne della follia, paurose perfino per gli Antichi, incombono all’orizzonte. Eppure, si potrebbe dire che, come accade ai visionari, ai grandi artisti del primo Novecento, come Conrad in Cuore di tenebra o Kafka in Nella colonia penale, anche il recluso di Providence aveva intuito l’avvento della catastrofe, la disumanizzazione delle coscienze, l’annientamento del linguaggio. Sui corpi dilaniati, sulle urla feroci e impossibili da rendere anche foneticamente, sulla furia degli aguzzini, cade il silenzio.



Carlo Pagetti