La ballata di Beta-2: la postfazione di Riccardo Valla e Giuseppe Lippi all'edizione Urania

Continua la storia della fantascienza attraverso la pubblicazione su Opera Spaziale dei saggi dei maggiori curatori italiani




Oggi torniamo a parlare del grande visionario Samuel R. Delany, le cui opere meritano un importante approfondimento



LA BALLATA DI SAMUEL R. DELANY



Samuel R. Delany è nato il 1° aprile 1942 nella “Harlem di New York” (eufemismo dei suoi biografi per dire che è di colore; Judith Merril precisa che è “interrazziale” e che appartiene a una famiglia della buona borghesia negra americana). A New York ha seguito studi di tipo scientifico presso la prestigiosa Bronx High School of Science e ha conseguito uno dei gradi di laurea minori in matematica, temperandola con una fitta attività artistica: poesia (la moglie è un’apprezzata poetessa, Marilyn Hacker, direttrice di una rivista letteraria); musica (canta, e suona la chitarra: ha lanciato un suo complesso, The Heavenly Breakfast); letteratura (oltre a scrivere, insegna letteratura inglese); e anche il puro e semplice andare a zonzo, infischiandosene: in Grecia faceva il cantante folk, nel Golfo del Texas il pescatore. La Merril dice che nemmeno lui sa bene se considerarsi un matematico, un musicista o uno scrittore, e che come esponente della sua generazione “è un passo più in là: circa dove saranno domani quei ragazzi che oggi vi preoccupano tanto”.

Trattandosi di una personalità così brillante e imprevedibile, è un po’ rischioso azzardare un bilancio dell’attività di Delany nel campo della fantascienza: spesso vecchie allusioni, contenute nei suoi romanzi, trovano improvvisamente un chiarimento in qualche dato biografico, o la frase detta da un personaggio (e magari messa a tacere da un altro personaggio) diventa profondamente significativa per capire lo scopo di Delany nello scrivere l’intero romanzo. Autori altrettanto brillanti hanno lasciato la fantascienza quando erano giunti al suo punto: Ballard, Bradbury, Vonnegut, Bester.

Il primo periodo della produzione di Delany – dal 1961 al 1964, con I gioielli di Aptor e il “ciclo delle Torri” – può essere definito, in un certo senso, “lirico”: i romanzi sono fondamentalmente ottimistici (nonostante le azioni spesso violente dei personaggi, l’autore è ottimista sia su ciò che sta compiendo, sia sulle vicissitudini dei personaggi). A un riassunto dell’intreccio, queste opere sono complesse, ricche di situazioni e di azione. Il loro stile è una novità per la fantascienza: alla ricerca di un contatto più immediato tra la realtà descritta e il lettore (un contatto cioè non filtrato attraverso la normale “prosa narrativa”: si veda nel capitolo 6 di Nova, 1968, l’episodio sulla monorotaia, quando il Sorcio fa un gesto e Katin lo detta al registratore), lo stile è obliquo, spesso le immagini sono tattili, visuali, olfattive. Sempre nel capitolo 6, più avanti, quando è “in viaggio” col bliss, il Sorcio – cioè il Delany “lirico”: Katin e il Sorcio sono le due facce del vero Delany come scrittore – dice: 

Qualsiasi cosa io veda, ci premo dentro le pupille, vi ficco le dita e la lingua

Le scene si susseguono con stacchi bruschi, senza dissolvenze: in un saggio del 1968, sul problema di come costruire ogni singola frase di un romanzo, Delany riporta l’esperienza di chi legge a un’esperienza di tipo cinematografico; nello stesso saggio osserva che ormai il lettore dovrebbe essere abituato a bruschi cambiamenti di scena e di personaggio anche nei romanzi, dato che si è abituato a vederli al cinema. Come risposta della critica, lo stile di Delany è stato messo nel mucchio degli esperimenti di linguaggio della New Wave di quegli anni, gli stacchi hanno evocato il nome di Van Vogt e P. Schuyler Miller, su “Analog”, ha parlato della sua “abilità di creare società e mondi complessi e di destreggiarsi fra gli intrecci e le loro ramificazioni”.

Con i romanzi del “secondo periodo” (1966-’68: Babel 17, Einstein perduto, Nova), separato dal primo da un intermezzo di vagabondaggi, dal Delany lirico affiora il Delany preoccupato della propria arte. Nell’ultimo romanzo di questa fase, Nova, la preoccupazione tocca il vertice: le costanti perplessità di Katin sul fatto che il romanzo deve essere su qualcosa, sul pubblico che lo leggerà, sulla stessa vitalità del romanzo come forma d’arte. 

I tre romanzi di questo periodo sfruttano nel modo migliore tutti gli strumenti tradizionali della fantascienza, si servono dei suoi cliché in modo brillante, ma nello stesso tempo costituiscono una ricerca d’altro tipo: anche se hanno strutture che ricordano miti del passato, svolgono seri discorsi sull’oggi (a volte da una prospettiva lontana) e in complesso sono scritti come scriverebbe fantascienza un romanziere “normale” che però conoscesse bene la fantascienza; come qualità sono eccellenti sia nell’uno sia nell’altro campo. Anche la risposta dei critici è molto positiva: vincono due volte il Nebula, la prima proprio con Babel 17. Judith Merril, che aveva letto Nova credendolo un romanzo di semplice avventura, finisce col lamentarsi perché “è così accattivante e facile alla lettura che si tende a dimenticare come ogni parola sia profondamente meditata”; Budrys dice che Delany è uno dei migliori scrittori americani in assoluto; Ellison dice che l’importanza di Delany non si limita al campo della fantascienza: che è un autore significativo per la narrativa in generale.

Dopo Nova, per vari anni Delany non ha più prodotto romanzi: la sua attività si è svolta come curatore di una serie di antologie e nella stesura di vari racconti. Questo silenzio potrebbe essere almeno in parte chiarito dal conflitto tra romanziere e romanzo che compare in Nova: Katin teme di non sapere scrivere altro che una ricerca allegorica del Graal, ma alla fine si deciderà a scriverla perché non gli pare giusto fermarsi lì dopo tutto il lavoro fatto. Così si è tentati di pensare che anche Delany, mentre scriveva Nova, abbia sentito crescere in sé la perplessità sull’efficacia del romanzo in generale, e del romanzo di fantascienza in particolare come forma artistica, e che, concluso il libro perché ormai l’aveva scritto, abbia cercato di chiarire le proprie intenzioni come artista allontanandosi almeno temporaneamente da opere impegnative come un romanzo.

Nel complesso, Delany è too smart for his own good, più intelligente di quel che gli converrebbe, e questo lo porta a scrivere e nello stesso tempo a sdoppiarsi come critico letterario di se stesso: un atteggiamento che l’ha portato a delusioni causate da persone meno intelligenti di lui

Bisognerebbe rileggere i suoi articoli: peccato che oggi si parli solo di Dick...


Riccardo Valla



Questo processo di riflessione – si è già visto con molti scrittori – porta quasi sempre in una sola direzione: verso la narrativa generale e fuori della fantascienza. Ma nel caso di Delany Nova non è stato l’ultimo romanzo, anzi, conclusa la fase meditativa, lo scrittore di Harlem è rimasto nel campo della science fiction per diversi anni ancora, producendo opere sempre più ambiziose e innovative. Se si vuol considerare l’intervallo intercorso tra la pubblicazione di Nova, 1968, e quella di Dhalgren, 1975, come una terza fase della vita creativa delanyana, allora la quarta è costituita quasi interamente dai due possenti meta-romanzi Dhalgren e Triton (1976), anche se non bisognerebbe trascurare i racconti brevi riuniti in raccolte personali come Al servizio di uno strano potere (Driftglass, 1971). 

Da notare che nell’interregno, oltre ai racconti, Delany avrebbe pubblicato l’ultimo capitolo del ciclo delle Torri, La caduta delle torri (1970), e il romanzo pornografico The Tides of Lust, primo in un genere cui avrebbe continuato a interessarsi con l’inedito Hogg e con The Mad Man (1994). Il rapporto tra sessualità delanyana e fantascienza – soprattutto quella da lui scritta negli anni Sessanta – è indagato in un libro autobiografico del 1988, The Motion of Light in Water: Sex and Science Fiction Writing in the East Village 1957-’65, in seguito ampliato e ripubblicato come The Motion of Light in Water: East Village Sex and Science Fiction Writing: 1960-’65. Nonostante che il contenuto sia molto esplicito e a tratti addirittura scabroso, il libro ha finito per vincere un premio Hugo come miglior testo non di narrativa.

Tornando a Dhalgren e al 1975, l’anno in cui riprende l’attività fantascientifica di Samuel R. Delany, questo super-romanzo di quasi novecento pagine che diventa un bestseller anche fuori del campo fantascientifico è giudicato in modo discorde dai suoi biografi, alcuni dei quali lo trovano a tratti debole o autoindulgente: ma è indubbiamente il suo tentativo più ambizioso fino ad allora. La storia è quella di un giovane che viene chiamato semplicemente Kid, il ragazzo, il quale arriva nella turbolenta città di Bellona, dove nessuno sembra più credere in niente. Non siamo però in un mondo remoto e alternativo, anzi, in un’America del futuro prossimo che fuori di Bellona sembra essere rimasta sostanzialmente la stessa (anche se in cielo brillano due lune). Il ragazzo diventa un artista e in un certo qual modo si tempra nell’incerta congerie morale di Bellona, tanto che prima di abbandonarla scrive un romanzo che potrebbe essere lo stesso Dhalgren.

Con Triton (1976) torniamo a un genere meno sperimentale e in qualche modo più vigoroso. Nel libro, che prende nome da una delle lune di Saturno, vengono presentate una serie di società alternative del futuro che si differenziano principalmente sul piano sessuale, ma, come scrive Peter Nicholls in The Encyclopedia of Science Fiction, “il protagonista maschile, che all’inizio dimostra un’insensibile attitudine da macho e che alla fine decide di diventare donna, rimane comunque un alienato”. Potrebbe esservi più di un’allusione all’ambiguità sessuale dell’autore, che è stato e si dichiara gay, ma il discorso è generale e va alle radici del costume e della morale americana del periodo.

Aggiunge Riccardo Valla

Triton era un gran libro, il Mattia Pascal della fantascienza. Il personaggio cambia luogo, cambia sesso, ma rimane sempre lo stesso (e questo va contro uno degli assunti della fantascienza, quello heinleiniano per cui ciascuno può sempre diventare un superuomo, basta che si applichi un po’ nel tempo libero)...


Dopo aver pubblicato un romanzo a fumetti disegnato da Howard Chaykin, Empire (1978), Delany ha fatto uscire ancora un nuovo romanzo, Stars in My Pocket Like Grains of Sand (1984), da alcuni ritenuto “il libro più importante del Delany anni ’80” (Nicholls); in quello che avrebbe dovuto essere il primo volume di un dittico, assistiamo a una rappresentazione non solo esotica, ma “eccessiva”, ambientata sullo sfondo di una vasta civiltà galattica. Il punto centrale del libro è costituito dall’idea che i nostri valori etici e relative attese siano un fatto del tutto locale e soggettivo (cosa nota fin dal tempo dei filosofi cirenaici in Grecia): la novità è che, per dimostrarlo, Delany non esita a ricorrere alla strada della degradazione, cioè a un succedersi di apparenti “turpitudini”.

Dopo Stars in My Pocket, ha proseguito la quadrilogia di Neveryön che era iniziata nel 1979 con la raccolta di racconti Tales of Neveryön ed era proseguita con Neveryöna (1983): i successivi titoli sono Flight from Neveryön (1985) e The Bridge of Lost Desire (1987). Apparentemente, il ciclo è un fantasy ambientato nell’immaginario impero di Neveryön in un’epoca pre-tecnologica, lontanissima nel passato: Delany non esita ad affrontare il tema del barbaro muscoloso, di un certo feticismo connaturato al genere (bondage, catene, collari) e dell’erotismo che ne trapela. In realtà, i libri sono costituiti da una serie di racconti scritti in uno stile maturo e allusivo, molto elaborato anche se di immediata accessibilità. È un’esplorazione di regni “altri” condotta con spirito fantascientifico più che semplicemente fantastico, e incontrerà il favore dei lettori di sf (un po’ come era avvenuto per I gioielli di Aptor).

Negli anni Settanta e Ottanta Delany si è dedicato ampiamente alla critica del genere, con i saggi raccolti in The Jewel-Hinged Jaw: Notes on the Language of Science Fiction (1977), The American Shore: Meditations on a Tale of Science Fiction by Thomas M. Disch - Angouleme (1978), Starboard Wine: More Notes on the Language of Science Fiction (1984) e The Straits of Messina (1989). Nel 1985 ha ricevuto il Pilgrim Award per il complesso del suo lavoro critico, che accoglie in buona parte il punto di vista del post-modernismo letterario. Nel 1988 è apparso il volume Wagner/Artaud: A Play of 19th and 20th Century Critical Fictions che non si occupa di fantascienza, mentre la successiva raccolta di saggi Silent Interviews: On Language, Race, Sex, Science Fiction, and Some Comics (1994) contiene anche spunti di riflessione sul genere. 

Nel 1988 Delany è diventato professore di Letteratura comparata all’Università del Massachusetts e dall’inizio del nuovo secolo insegna Letteratura inglese all’Università di Buffalo, New York.


Giuseppe Lippi


I titoli dell'autore usciti di recente su Urania: