L'introduzione: Embassytown di China Miéville

Post-umani e post-alieni:
il balletto dei Cavalli Folli

di Carlo Pagetti



È almeno dalla fine della cosiddetta ‘golden age’ della fantascienza americana e inglese, ai tempi dell’affermazione di due autori canonici come Isaac Asimov e Arthur Clarke – romanzieri, intendiamoci bene, sulla cui qualità di creatori di poderosi universi immaginari non è lecito dubitare – che la science fiction ha cercato nuovi percorsi non più basati sull’impiego di formule fisse e di scenari nitidamente definiti.


La conquista dello spazio, l’incontro-scontro con gli alieni, la città del futuro, le macchine di un progresso tecnologico affascinante e spesso terrificante rimangono tematiche ricche di suggestioni narrative, ma cambiano i linguaggi e le strutture formali, in seguito all’interesse crescente degli scrittori più consapevoli per la disseminazione e l’ibridazione dei generi.

Forse è tutto il campo della letteratura che è in movimento, continuando a dis/perdere i parametri costituiti da centri e punti focali. Lo stesso Miéville ha polemizzato con il litfic, il romanzo che vanta pretese letterarie – quello che in passato veniva chiamato mainstream, a sancirne una automatica superiorità rispetto ai prodotti di genere. Per lo scrittore inglese il litfic, almeno in ambito anglofono, rischia all’inizio del XXI secolo di impaludarsi in un terreno psicologico e narcisistico, oppure di impoverirsi in uno sterile impegno politico che non dovrebbe essere l’obiettivo principale dell’immaginazione romanzesca.

È pur vero che, nell’ambito della narrativa di genere, i confini tra fantascienza e fantastico sono stati sempre labili, come mostra l’attività di un altro autore di solito targato sf, Ray Bradbury, il quale sapeva passare con disinvoltura dall’ispirazione distopica alla Orwell (Fahrenheit 451) alle contaminazioni gotiche e favolistiche di Paese d’ottobre e di altre raccolte di racconti, dalla rivisitazione delle mitologie astronomiche applicate ai canali di Marte (Cronache marziane) a quella poetica degli agrodolci ricordi infantili sospesi tra stupore e ansia, che sarà recepita, ad esempio, da Stephen King. E naturalmente anche Philip K. Dick, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, si muove senza eccessive preoccupazioni tra fantastico e immaginario scientifico, e non trascura neppure la dimensione del realismo, che per molto tempo lo spinge alla ricerca del romanzo mainstream di successo. D’altra parte, tra l’inizio e la fine degli anni Sessanta del secolo scorso, autori americani come Kurt Vonnegut, jr. (non a caso una delle voci più rappresentative del romanzo postmoderno) e Ursula K. Le Guin cominciano a esprimere una volontà di sperimentazione narrativa che inevitabilmente supera l’ambito della fantascienza tradizionale e crea forme ibride, collocandosi nel campo della parodia e del black humour (Vonnegut), oppure esplorando l’area della children’s literature o quella della ricostruzione pseudostorica (Le Guin).

Aggiungiamo, per completare un quadro molto sommario, l’impegno della ‘new wave’ britannica, raccolta, sempre negli anni Sessanta, attorno alla rivista inglese New Worlds, con la sua ricerca dello ‘spazio interiore’ – esaltata da J.G. Ballard, altro autore che si è cimentato in un incessante lavoro di revisione e di contaminazione di generi – o con i tentativi di riscrittura della tradizione letteraria, che porteranno Brian Aldiss a mescolare la fantascienza fin de siècle di H.G. Wells e il neogotico cosmico di H.P. Lovecraft in The Saliva Tree (1965), o a ‘pasticciare’ la trama di Frankenstein in Frankenstein Unbound (1973), tra i cui personaggi compare la stessa Mary Shelley. Dalla fine del Novecento in avanti, semmai, si fa più forte una consapevolezza critica che mette in discussione certi presupposti ideologici e formali della fantascienza, complicandone volutamente i linguaggi. Di fronte al successo enorme del cinema sf, che spettacolarizza sul grande schermo il ‘senso di meraviglia’ delle origini (si pensi allo splendore 3D di Avatar di James Cameron o alla riproposta odierna della serie di Star Wars, resa possibile dal perfezionamento delle tecniche digitali), e dopo il trionfo delle narrazioni fantasy sul grande e sul piccolo schermo (le storie tolkieniane reimmaginate da Peter Jackson tra le montagne e le vallate della Nuova Zelanda, la serialità televisiva potente e a tratti shakespeariana di Game of Thrones), la necessità di abbandonare la strada della fantascienza ‘popolare’, di intrattenimento e di evasione, contribuisce a elaborare nuove poetiche dell’immaginario scientifico, influenzate dall’antropologia, dalla linguistica, dai gender studies. La materia fantascientifica va dunque aggredita, frantumata, de/composta più che ri/composta, per mezzo di una tessitura volutamente complicata e aggrovigliata, degna di un reading public di alto livello, addirittura più vicino all’accademia che al consumo di massa. I nomi che vengono subito in mente sono quelli di Samuel R. Delany – un altro intellettuale formatosi nell’America degli anni Sessanta, che potenzia la vocazione poetica e antirealistica della fantascienza, pur non disdegnando prodotti vicini al gusto della science fantasy –, e di William Gibson, l’autore di Neuromante (1984), certamente l’esponente più innovativo del cyberpunk.

L’elenco sommario di figure e di opere che viene qui offerto ai lettori non vuole stabilire le tappe di una possibile ‘evoluzione’ del genere sf, ma piuttosto sottolineare sia l’operazione di rottura con i linguaggi del passato tentata da Miéville, sia la volontà dello scrittore di mescolare spunti narrativi e generi in un intreccio intertestuale, che di fatto tende a destabilizzare – non banalmente a rievocare – le basi stesse del discorso sf. D’altra parte, l’ispirazione di Miéville possiede tratti inconfondibilmente britannici e, in senso lato, europei. Nel primo caso, indubbia è la presenza della psicogeografia di Iain Sinclair, un altro autore profondamente londinese, che esplora in chiave soggettiva e visionaria luoghi familiari, quelli urbani in particolare; nel secondo caso non può non venire in mente il riverbero di certe ambientazioni sospese tra allucinazione onirica e disgregazione psichica che riconducono a Franz Kafka e a P.K. Dick. Questi due romanzieri sono stati più volte segnalati come gli ispiratori di La Città & la Città (2011), in cui due città dell’Europa orientale, che si sovrappongono l’una all’altra coesistendo nello stesso spazio fisico, richiamano la sorte di Berlino prima della riunificazione tedesca, o di Gerusalemme lacerata dai conflitti religiosi, ma indubbiamente rimandano ancora, oltre che alla San Francisco de La svastica sul sole di P.K. Dick, a una Londra notturna, che potrebbe essere ritagliata da una crime story, da un penny dreadful dell’epoca vittoriana. L’estetica postmoderna della sovrapposizione e della contaminazione indiscriminata degli stili non esclude l’omaggio aperto al mondo popolare dei pulp magazine, come succede in Kraken (2012), in cui Miéville non esita a mettere in scena una creatura mostruosa di netta impronta lovecraftiana. 

Miéville, che pure ha una precisa collocazione ideologica a sinistra del partito Laburista e una considerevole varietà di studi accademici alle spalle, non ha mai esitato a dichiarare in modo esplicito la sua adesione alla tradizione fantascientifica più corriva, a conferma che non è la materia narrata a contare, ma l’elaborazione di un linguaggio capace di mettere in discussione stereotipi e troppo facili soluzioni stilistiche. In ogni caso, l’utilizzo spregiudicato delle caratteristiche di un genere come la fantascienza entra a far parte del gioco narrativo, che deve spingersi al di là, piegarsi ad alcune schegge del passato sf e, nello stesso tempo, infrangere i confini, intrecciando un discorso intertestuale e metatestuale, che non trascura neppure la grande tradizione letteraria, a partire dai settecenteschi Viaggi di Gulliver di Swift e da altre cronache fittizie di viaggi per mare, e che fa esplicito riferimento, come ha dichiarato Miéville, a testi che si sono occupati di ‘decodificare la città’, sulle orme di Thomas de Quincey, e, nel Novecento, Michael Moorcock, Alan Moore, Neil Gaiman, Iain Sinclair. Si tratta di voci che guardano molto di più a Londra che alle metropoli americane, ma che, nello stesso tempo, non dimenticano come l’immagine di Londra si possa confondere con quella di spazi e di luoghi appartenenti a una alterità lontana e indecifrabile. Non a caso Miéville rifiuta di inchinarsi di fronte alla forza epica del Signore degli Anelli di Tolkien, cui rimprovera la nostalgia per una società gerarchica, feudale, e invece si dichiara affascinato dalle viscere labirintiche e potenzialmente infinite che formano il corpo colossale del castello di Gormenghast, al centro della trilogia di Mervyn Peake, che, come Ballard, aveva passato l’infanzia in Cina. Lo stesso Miéville, peraltro, ha vissuto alcuni periodi della sua vita lontano dall’Inghilterra. 

D’altra parte, sarebbe ingiusto dimenticare l’impatto esercitato sull’autore anche dalla cultura americana contemporanea nella sua riflessione sulla dimensione del postumano, che compare esplicitamente nei romanzi di Octavia Butler (soprattutto nel ciclo di Xenogenesis alla fine degli anni Ottanta) e nelle recenti elaborazioni teoriche di N. Katherine Hayles. Vorrei ribadire che la pletora di riferimenti letterari – all’interno o all’esterno della fantascienza, a livello più propriamente immaginativo o nella componente filosofico-linguistica che riconduce, ad esempio, a Wittgenstein – nulla sottrae alla densità formale dei testi mievilliani, che sono tutt’altro che derivativi, e che, anzi esprimono una forte valenza sperimentale, metanarrativa, così da collocarsi in un universo immaginario, in cui implode ogni tentativo di creare una dimensione psicologica o una sicurezza ideologica. Sotto il segno della Babele biblica, relatività e contraddittorietà dei linguaggi annullano la contrapposizione tra ‘noi’ e ‘loro’ e i processi di comunicazione si infrangono contro le barriere misteriose e invalicabili che separano creature incommensurabilmente diverse, i loro codici retorici, le strutture culturali di comunità, che condividono solo un turbolento senso di incertezza. Ci troviamo, insomma, come accade in Embassytown, in un mondo dove l’individuo non esiste più nell’accezione del termine ancora largamente usata, poiché è diventato, appunto, postumano.

Postumani tutti, s’intende: anche gli alieni (postalieni, quindi?), nel senso che non è più possibile ricondurli, attraverso i soliti procedimenti allegorici o le solite allusioni sociologiche, ai modelli di un puzzle da spiegare o da risolvere attraverso opportuni e convincenti meccanismi analogici. Si pensi ai marziani de La guerra dei mondi di H.G. Wells (1898), le creature con cui non esiste alcun dialogo, tanto distruttivi quanto tecnologicamente avanzati e, nello stesso tempo, terrificanti nelle loro abitudini alimentari vampiriche. E tuttavia il narratore wellsiano, che segue la loro inesorabile avanzata verso Londra, arriva a conclusioni efficaci, rifiutando motivazioni etiche o religiose (i marziani come incarnazioni della malvagità cosmica o come angeli sterminatori venuti a punire l’umanità), e piuttosto trovando una risposta nelle leggi della selezione naturale formulate da Charles Darwin ne L’origine della specie. I marziani sono spinti all’invasione interplanetaria dalla necessità della sopravvivenza, che li ha allontanati dal loro antico pianeta, ormai inaridito. Essi hanno però trascurato il pericolo di un’epidemia mortale provocato sul loro organismo dai bacilli terrestri, gli unici vincitori della guerra dei mondi.

Nulla di tutto ciò in Embassytown: reazioni, motivazioni, imprevisti del contatto che avviene tra umani e Ariekei rimangono assolutamente inesplicabili, né è dato giungere a una vera comunicazione fatta di parole o di gesti, se non per quanto riguarda l’acquisizione da parte dei visitatori di manufatti di altissima perfezione tecnologica e alcuni momenti improvvisati di incontro che sembrano produrre, peraltro, conseguenze stravaganti, come la trasformazione di un certo numero di personaggi umani in similitudini atte a riempire – o così pare – i vuoti del linguaggio alieno. O, piuttosto, al plurale, dei linguaggi alieni, dal momento che il corpo composito, grottesco, degli Ariekei, li rende percepibili come possenti e vacillanti creature equine, che hanno due bocche e sovrappongono due apparati fonetici, quasi fossero concepite a imitazione di certi disegni e dipinti di minotauri, tori, cavalli, eseguiti da Picasso. Tutto è duplice sul pianeta Arieka, un avamposto cosmico sperduto negli abissi dello spazio, cosicché anche coloro che riescono a dialogare, molto parzialmente, con gli Ariekei sono uno e doppio. I rappresentanti dell’umanità del lontano futuro sono, infatti, gli Ambasciatori che si chiamano MagDa, o EdGar o JoaQuin, o CalVin, l’amante – anzi, gli amanti, perché due sono i corpi e, in una certa misura, anche i tratti psicologici sono separati – della protagonista e narratrice Avice (una Eva priva di innocenza, peccaminosa, del futuro? Eva/Vice? Una ‘vice’ delegata a rappresentare l’umanità da una posizione marginale?). E poi arriva/no EzRa, che, in piena dissociazione psichica, sembra/no paradossalmente in grado di stimolare, se non la comprensione, la reazione emotiva degli Ariekei. I quali, da parte loro, fisicamente bizzarri come il vasto territorio urbano animato e instabile da loro abitato (al cui centro si trova la zona franca e fornita di aria respirabile che costituisce Embassytown), sono impegnati nello sforzo patetico di raggiungere la comprensione e l’adozione di un linguaggio menzognero, dal momento che tutto è letterale nel loro eloquio, che quindi non conosce il termine ‘menzogna’, né sembra capace di inventare espressioni menzognere. 

Giustamente Ursula K. Le Guin ha evocato i personaggi dei Cavalli Saggi, gli Houyhnhnms, che compaiono nel quarto e ultimo viaggio di Gulliver: nei loro nitriti articolati e razionali, essi hanno cancellato la parola evil (‘male’), e tuttavia questa assenza lessicale non impedisce loro di compiere azioni che sono malvagie e crudeli, come è il progetto di porre fine alla razza asservita degli Yahoos con un programma eugenetico di castrazione, oppure di cacciare dalla loro (finta) utopia l’adorante viaggiatore inglese, che bacia la zampa del suo Padrone nel momento dell’addio doloroso. Certo, Avice non è più Gulliver, e non solo per la sua spregiudicata sessualità, ma anche per la sua natura postumana, mentre i Cavalli Saggi swiftiani sono trasmutati in Cavalli Folli, scatenati in uno sgangherato e cacofonico balletto. Attorno a Avice si manifesta un mondo che è comunque pienamente postumano, dove l’uso di trapianti artificiali e di congegni elettronici ha trasformato gli esseri umani in cyborg, quando essi non siano da ogni punto di vista androidi artificiali curiosamente ricchi di doti umane, come nel caso di Ehrsul, l’amica preferita di Avice. E la stessa lingua che si parla a Embassytown si chiama – con un evidente omaggio a P.K. Dick – angloubik, grazie al trionfo dei neologismi e delle invenzioni linguistiche con cui si è ottimamente misurato il giovane ma validissimo traduttore.

Ogni altro principio o valore o conoscenza, a cominciare dalla sessualità, o dalle tecniche del volo interplanetario, si trasforma in un’esperienza indicibile, stimolata dagli effetti di una droga. Siamo dunque al polo opposto del realismo del futuribile, che è una delle matrici più solide della fantascienza, o del dramma degli incontri ravvicinati del terzo tipo, che tendono a cristallizzarsi lungo l’asse dell’utopia o dell’apocalisse. Senza entrare nei meandri della trama – che si sforza continuamente non di dare spiegazioni o di risolvere enigmi affascinanti, ma di procedere a singhiozzo, in modo imprevedibile, senza concedere troppo a quel minimo di spiegazioni alla fine indispensabili per cogliere qualche contorno non puramente onirico del mondo futuro (si pensi alla confusione delle sette religiose presenti a Embassytown, o anche qui si dovrebbe forse dire postreligiose) –, va sottolineato che è forse l’elemento ludico a sconfiggere nel lettore il timore di immergersi in un tessuto fin troppo evanescente e impalpabile, in cui si rispecchia il procedimento di immersione spaziotemporale che permette a Avice di essere una viaggiatrice nel cosmo oscuro e simile a un surreale paesaggio marino. Avice/Alice, forse, una bambina divenuta grande, alloggiata dentro il labirinto popolato di creature mostruose e di abitazioni viventi della Wonderland interplanetaria, nella zona oltre il confine tra Embassytown e la città degli Ariekei, dove, nell’antefatto del romanzo, Avice/Alice si è inoltrata da piccola. Lì è avvenuto l’incontro fatale che le ha cambiato la vita, trasformandola in una espressione del linguaggio, una similitudine, un espediente narrativo in carne e ossa – anzi, in carne, ossa, e componenti cibernetiche. Una volta adulta, Avice ha capito che non potrà avventurarsi più di tanto oltre la zona di contatto di Embassytown, ma cerca comunque di dare un senso alla sua esperienza postumana, a cui partecipano, di volta in volta, l’ambiguo marito linguista Scile, l’androide Ehrsul, l’Ambasciatore al singolare e al plurale con cui va a letto (talvolta confondendo i due corpi e le due personalità), lo sconvolgente ‘doppio’ EzRa. Poi ci si sono loro, le divinità parodiche e grottesche dell’altrove postalieno, con i due apparati fonetici, il corpaccione che invecchiando diventa cibo per i più giovani, le abitazioni degne delle architetture di Gaudí, i movimenti scomposti di grossi equini che non si riesce mai a mettere a fuoco, come fossero fotogrammi di una vecchia pellicola cinematografica, su cui è impressa la storia della fantascienza che si reinventa e si deteriora davanti ai nostri occhi ormai irrimediabilmente postumani.